Alitalia, il momento di fallire

12 Gennaio 2017 di Stefano Olivari

I treni ad alta velocità hanno ammazzato quel poco di buono, nel senso di rotte profittevoli, che c’era nell’Alitalia, visto che andare da Milano a Roma, secondo noi anche a Napoli, in aereo ha perso di senso. Perché a quasi parità di tempo, considerando trasporti e controlli, arrivare fuori mano invece che nel centro delle città? Quanto al lungo raggio, è zavorrato da vari tipi di inefficienze e dal romanocentrismo che fa perdere buona parte della clientela business. Una fresca dichiarazione del presidente di Intesa, Gian Maria Gros Pietro, ci ha ricordato che fra qualche giorno inizierà l’ennesimo ‘confronto’ (per parlare anni Settanta) con i sindacati, con l’obbiettivo di salvare una compagnia che tecnicamente sembra impossibile da salvare: nel 2016 la sua perdita netta è stata di 450 milioni di euro e il piano industriale con scadenza 2020 che circola ha alcune idee forti (dividere l’Alitalia in due parti, una per i voli più brevi che faccia low cost e una per quelli più lunghi simile come organizzazione all’Alitalia che tutti conosciamo) ma di difficile realizzazione.

Quella che una volta era la compagnia di bandiera è adesso un’azienda formalmente privata, con azionista di riferimento 49% Etihad e però azionista di maggioranza la mitica CAI (dove dominano Unicredit, i Benetton e, appunto, Intesa), presieduta nientemeno che da Montezemolo (LCDM è anche vicepresidente di Unicredit: ma come avrebbe fatto con Roma 2024?). Con amministratore delegato Cramer Ball, uomo di Etihad che nel suo anno in carica non è che abbia risanato chissà che cosa. Va detto che questo assetto azionario è seguito a quello dei tragici ‘Capitani coraggiosi’, i presunti patrioti messi insieme da Berlusconi nel 2008, che a loro volta avevano ereditato (traendone vantaggi su altri tavoli) un’azienda distrutta da decenni di clientelismo e di dirigenti come Giancarlo Cimoli, ma che tutto sommato ripartiva da zero visto che il peggio era finito nella bad company statalizzata.

Veniamo al punto: al di là di progetti, hub, piani industriali e rotte, il cuore del piano di ristrutturazione sarebbe liberarsi di 4.000 dipendenti. Forse non tutti, nemmeno chi prende abitualmente l’aereo, sanno come si è fatto nel recente passato. Di sicuro non lo sapevamo noi, che lo abbiamo scoperto grazie al caso di un cassaintegrato di lusso Alitalia, la cui cassa integrazione è come le altre Alitalia pagata non da trattenute in busta paga di aziende e lavoratori, come avviene di solito, ma da 3 euro su ogni biglietto aereo venduto in Italia, a prescindere dalla compagnia, e soprattutto a prescindere dal suo costo. L’idea di base era che i circa 1.200 euro di massimale per ammortizzatori sociali sono molto meno delle retribuzioni di dirigenti, piloti, steward e hostess, quindi bisognava chissà perché (non è un divorzio, con relativi alimenti) mantenere il loro tenore di vita e si è inventato questo ‘numero’. Così esiste personale Alitalia in cassa integrazione anche con 30mila euro lordi al mese (sono casi limite, ma è normale per un pilota essere sopra i 10.000), con una cassa integrazione che in questo settore arriva a 7 anni contro i 4 ad esempio di un metalmeccanico. Lo studio dell’INPS reso noto l’anno scorso da Boeri dice poi che quasi il 100% della cassa integrazione Alitalia è pagata dagli utenti e non dalle trattenute.

E quindi? Da semplici lettori delle pagine economiche non ci è tuttora chiaro cosa sia stato promesso politicamente agli arabi per farli imbarcare nell’estate 2014, con  il governo Renzi in carica, in questa costosa (560 milioni di euro per le azioni dell’azienda principale e di altre collegate) avventura, quando avrebbero potuto aspettare il cadavere di un concorrente o semplicemente stare fermi. Azzardiamo: una corsia preferenziale per liberarsi di parte dei lavoratori (o dei non lavoratori: il mondo Alitalia è pieno di privilegi ai confini della realtà), senza fare la parte dei cattivi o subire troppi scioperi. Impossibile quantificare quanto sia costata in totale Alitalia allo Stato, qualcuno stima 7 miliardi di euro. Per cosa? Non regge nemmeno il discorso dell’italianità, fatto e strafatto nel 2008 contro Air France (che aveva offerto molto più dei patrioti), visto che il pallino è ad Abu Dhabi e solo per aggirare le regole europee Etihad sta sotto al 50%. Sarebbe insomma il momento di lasciare questa azienda al suo destino e di salvare le persone. A 1.200 euro al mese, però.

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