Avremmo scommesso su Joey Barton

29 Aprile 2017 di Paolo Sacchi

L’articolo 25 del codice etico della Fifa ribadisce che a qualunque tesserato è vietato scommettere direttamente o per interposta persona sulle gare del proprio sport. Insomma, Joey Barton, centrocampista del Burnley, l’anno e mezzo di squalifica rimediata dalla FA inglese se l’è davvero cercata. Poi sarà anche vero che l’etica finisce nel cassetto nel caso delle sponsorizzazioni dei club delle grandi o piccole agenzie di scommesse – e pure delle federazioni, come quella scozzese – però nella fattispecie le regole sono chiarissime.

In dieci stagioni l’ex giocatore del Manchester City ha piazzato 1.260 puntate su partite di calcio, tra cui alcune con in campo le squadre in cui ha militato nel corso della propria carriera. Incrocio di dati alla mano, facile immaginare che a 34 anni la sua carriera ad alto livello sia comunque arrivata ai titoli di coda, al di là della lettera di scuse e una sorta di messaggio d’addio al football che ha pubblicato sul suo sito ufficiale.

Malato di gioco d’azzardo – anche se, a onor del vero non ha mai scommesso contro la propria squadra – quanto violento e autolesionista al punto di buttar via le proprie capacità di calciatore, in realtà Barton è stato e continua ad essere una calamita per chi è alla ricerca di personalità meno convenzionali nello sport. Nel bene e soprattutto nel male, ha sempre voluto e avuto qualcosa da dire o da mostrare. Il paradosso è che il calcio giocato, col tempo, è finito in secondo piano rispetto al contorno. Ludopatia e violenza si sono sviluppate in una personalità che allo stesso tempo ha manifestato interessi e desideri meno consueti se non lontani da quelli dello stereotipo del calciatore-medio. Insomma, mentre sul campo e fuori finiva spesso per azzuffarsi con avversari e compagni oscurando il proprio talento, in rete si è creato col tempo una sorta di status di filosofo autodidatta che gli è valso tre milioni di seguaci su Twitter e forse più ammiratori rispetto a quelli che ne hanno osservato l’ascesa e il declino da calciatore. Se è stata una scelta consapevole o meno è difficile dire, per quanto sembri più realistica la seconda ipotesi: Barton è sembrato pervaso una sorta d’incontenibile esigenza di comunicare, di esprimere le proprie idee, discettare su argomenti trasversali oltre il calcio. Dalla Thatcher fino alla Big Society britannica con puntate sull’omofobia e temi legati alla quotidianità, citando da Nietzsche a Orwell fino al modulo di gioco del Newcastle: il Barton-pensiero negli anni è arrivato ovunque.

In una Premier League in cui si assottigliano le stelle e i personaggi made in England, con tutto quel che ne consegue, con questa squalifica svanisce la possibilità di rivedere sul campo uno dei più controversi, brillanti, dinamici, irritanti, provocatori e sprecati talenti del calcio inglese dell’ultimo decennio. Manchester City, Newcastle United e Qpr sono state le maglie più prestigiose che ha vestito, prima della catastrofica apparizione ai Rangers d’inizio campionato, conclusa col ritorno al Burnley.

Nel bel mezzo della carriera, una curiosa annata all’Olympique di Marsiglia. In quella stagione di esilio semi-forzato originato da una pesante squalifica, avevamo colto l’opportunità di vederlo giocare dal vivo e tornare interpretare il ruolo di architetto del centrocampo. Non particolarmente brillante: a dirla tutta, a completare la metafora, meno ingegnoso di Le Corbusier e della sua affascinante Cité Radieuse a due passi dallo stadio, in cui vale la pena tornare ogni volta in cui ci si trova da quelle parti. In un Vélodrome in piena ristrutturazione, in una fredda sera di marzo, abbiamo visto l’OM giocare contro l’Ajaccio, con in campo Adrian Mutu. Una sorta d’incrocio simbolico: facile immaginare che Barton e Mutu saranno un giorno annoverati tra i talenti sprecati. Ci piace invece pensare che entrambi verranno ricordati tra quei talenti in grado, tutto sommato, di suscitare emozioni. Un po’ come Le Corbusier.

Paolo Sacchi, da Marsiglia

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