In viaggio con Polentes

26 Aprile 2016 di Paolo Sacchi

Un viaggio in treno tra San Pietroburgo e Mosca solitamente non offre particolari suggestioni. Il paesaggio è monotono, piatto. Un paio di stazioni sulla linea servono per scattare qualche foto all’umanità di provincia che sale e scende dai vagoni. Sui binari, babushke col foulard in testa intente a vendere bevande, frutta e oggetti ai viaggiatori affacciati dai finestrini. Ogni giorno su quella tratta è un continuo viavai di convogli. Nell’estate del 2007, su uno dei tanti, c’è anche un gruppo di pensionati veneti. Li guida una ragazza italiana. La incrociamo in sala d’aspetto. “Tra i turisti che accompagno c’è un ex calciatore. Dicono che abbia giocato anche in serie A”. Davvero? Interessante. “Si chiama Luigi. Il cognome? Pole… Sì, Polentes”. La mente corre subito ad un album delle figurine. Del 1975, forse. Individuarlo è semplicissimo, almeno per chi le collezionava negli anni Settanta. Stesso baffo, stesso sguardo. Severo e sorridente allo stesso tempo. Ci sono posti liberi di fronte al suo sedile. Chiediamo se possiamo accomodarci. Lui annuisce e iniziamo a chiacchierare.

Polentes era un difensore leale e roccioso. Dopo una gavetta con Empoli e Perugia, la sua carriera svolta definitivamente con il passaggio alla Lazio nel 1969. Con quella maglia ha vinto lo scudetto nel 1974 e vissuto da protagonista annate diventate leggendarie di una squadra turbolenta ma vincente. Disunita fuori dal campo ma perfettamente compatta sul terreno di gioco. Con due valori aggiunti assoluti: Tommaso Maestrelli in panchina e Giorgio Chinaglia in attacco.

Quella chiacchierata in treno verso Mosca ci è tornata in mente a cinque anni esatti dalla scomparsa di Polentes. Era nato il 12 ottobre 1944. È mancato il 21 aprile del 2011 a sessantasei anni. Quel viaggio in mezzo al nulla si era trasformato in un indimenticabile percorso a ritroso nel tempo. Con lui abbiamo trascorso qualche ora nel calcio degli anni Settanta, attraverso i racconti di chi quelle straordinarie stagioni le aveva vissute, per molti versi inaspettatamente, da protagonista. Polentes non immaginava che a lui eravamo affezionati per un motivo che accomunava molti bambini cresciuti in quell’epoca: la sua indimenticabile figurina. Due baffoni neri su di un volto severo e un cognome curioso. Un’epoca calcistica ormai lontanissima: Novantesimo Minuto, il libero e la marcatura a uomo, nessun giocatore straniero, le partite alle due e mezza d’inverno, la serie A con sedici squadre ma, soprattutto, i volti dei calciatori sugli album Panini come punto di rifermento assoluto.

Il signor Luigi aveva lasciato il calcio che conta a 32 anni, nel 1977. Dopo le stagioni con la Lazio era passato al Modena. La famiglia però viveva a Vittorio Veneto. Allora basta, meglio tornare verso casa e godersi i propri cari una volta per tutte, anche perché le soddisfazioni ad alto livello non erano affatto mancate. Un addio al settore professionistico senza rimpianti ma condito da tanti ricordi piacevoli di un’epoca irripetibile. Soprattutto e paradossalmente fuori dal campo. A Roma Polentes viveva senza pressioni, circondato da una cordialità diffusa. Quella del proprietario e i clienti del bar sotto casa. Tutti romanisti, pronti alle battute ogni volta che la Lazio perdeva. Cosa che a dire il vero capitava poche volte in quel periodo. Anche se non era la prima scelta per Maestrelli – era il ricambio nel settore difensivo – ha vissuto da protagonista tutte le avventure (in alcuni casi, in senso letterale) di una formazione che “ha fatto di tutto”, come ci disse lui stesso. A partire dai risultati: retrocessa, promossa, scudettata, squalificata.

Episodi e aneddoti forse oggi irripetibili. Soprattutto tante botte: risse in strada, scazzottate con i giocatori dell’Arsenal alla cena post partita, assalti negli spogliatoi dell’Olimpico tra biancazzurri e ospiti dell’Ipswich Town, tra le varie ed eventuali. Incredibile e surreale la vicenda della Coppa Uefa 1975/76, con la federazione e gli organi politici che “invitano” la Lazio a dare un esempio forte contro la Spagna franchista, non scendendo in campo nella partita casalinga contro il Barcellona di Cruijff, oltretutto club notoriamente avverso al Caudillo. Risultato? Tre a zero a tavolino, con beffa ai giocatori biancazzurri che vedono sfumare l’incasso della partita di casa che sarebbe stato il loro premio stagionale per la qualificazione alla competizione. Beffa nella beffa, l’obbligo dell’UEFA a disputare comunque la gara di ritorno al Camp Nou, pena l’esclusione di tutte le compagini italiane. Che si sarebbe trasformata in una serata umiliante in tutti i sensi, con il mitico Johan inseguito invano da Polentes e compagni mentre i blaugrana asfaltavano la Lazio 4-0.

Anche se Polentes mise il calcio professionistico in ripostiglio, la Lazio negli anni non si dimenticò di lui, coinvolgendolo in alcuni momenti istituzionali. Come quella volta che lo chiamarono in occasione del centenario del club in cui i reduci di quel primo e indimenticabile titolo erano gli ospiti d’onore della festa. Una soddisfazione ma anche una sorta d’imbarazzo nel sentire di trovarsi nel posto giusto nel contesto sbagliato – o viceversa – tanto aveva trovato cambiato l’Olimpico. Uno shock per chi come lui mancava da vent’anni da quelle parti. Buffet sontuosi, divanetti e sale vip, hostess e camerieri. In quel momento ci disse di aver capito perché aveva smesso di seguire il calcio con costanza. Tutto troppo differente dalla sua epoca in cui allo stadio si andava per passione e in televisione se ne parlava con misura e competenza. Non a caso al pallone aveva preferito la viticultura e soprattutto la famiglia, di cui era orgoglioso.

All’arrivo a Mosca era già sera. Nel frattempo non avevamo visto nulla fuori del finestrino, ma quel viaggio ci è rimasto nel cuore.

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