Basket
Tanjević e il segreto della Jugoslavia
Stefano Olivari 05/02/2016
Quando nel 1979 Dražen Petrović esordisce nella pallacanestro dei grandi la squadra più forte di Jugoslavia e d’Europa è il Bosna allenato da Bogdan Tanjević. Diventato guida della squadra di Sarajevo a soli ventiquattro anni, nel 1971, l’ha portata dalla seconda divisione alle vette internazionali mettendo un fenomeno come Delibašić insieme a ottimi giocatori come Radovanović e Varajic, riuscendo spesso a battere squadre rinforzate da due americani. Tantissimi gli incroci e gli incontri in carriera con Dražen e famiglia, tantissime le cose da dire su un paese irripetibile come la Jugoslavia. Tanjević, di nascita montenegrina, è cresciuto in Bosnia, è diventato buon giocatore all’OKK Belgrado, ha fatto grandi cose anche in Italia (su tutte l’oro all’Europeo del 1999) e Turchia. Nemico dei nazionalismi, amico di chi vuole costruire qualcosa invece che distruggere.
Signor Tanjević, come è stato il suo rapporto con Dražen Petrović?
Molto profondo. All’inizio era un avversario del mio Bosna e un talento pazzesco che tutti vedevamo crescere con affetto, poi da allenatore della Jugoslavia l’ho fatto esordire in nazionale a diciassette anni appena compiuti. Ho conosciuto benissimo e frequentato la famiglia, in particolare la madre. E in almeno due occasioni sono stato vicinissimo ad essere il suo allenatore di club. La prima a Trieste, nel 1987: nonostante lo inseguisse mezza Europa, dal Barcellona al Real Madrid, con Stefanel eravamo riusciti a convincere sia lui che la famiglia a venire da noi l’anno successivo rinunciando alle offerte spagnole. Era d’accordo anche Novosel, che per Dražen voleva il meglio. Purtroppo però retrocedemmo in B1 e ovviamente non se ne fece più niente. Rimase un bellissimo rapporto con i Petrović, al punto che Dražen venne anche a tenere un clinic per le giovanili della Stefanel: giornate emozionanti che rimangono nel mio cuore. Peccato che a Trieste quelli che sono venuti dopo abbiano distrutto le foto di quell’evento, per tacere del resto. La seconda volta fu nel 1988, quando il Real Madrid mi cercò per sostituire Sainz. Mi stimavano dai tempi del Bosna e fui contattato da Lopez Serrano, dirigente della sezione pallacanestro del Real: volevano costruire la squadra intorno a Dražen e cercavano un allenatore che aprisse un ciclo che avesse lui come leader. Ho sempre pensato che dietro ci fosse Dražen, che in quel periodo pensava di rimanere al Real per più di un anno. Ma ero troppo legato al progetto di Stefanel a Trieste e dissi di no ancora prima che mi facessero un’offerta concreta.
Nel 1981 lei con la Jugoslavia vinse l’argento europeo e in autunno, per la tournée americana, convocò per la prima volta Dražen nella nazionale maggiore. Com’era quel Dražen in costruzione?
Già un fenomeno, anche se il tiro non era certo quello che poi si sarebbe visto nel Cibona e nella NBA. Quella nazionale che portai in America era in pratica una Under 22, più Vilfan e soprattutto Dalipagić, uno che se fosse nato qualche anno più tardi e con altre regole sarebbe diventato un protagonista assoluto anche nella NBA. Dražen era il più piccolo del gruppo, ma già lo tenevo in grandissima considerazione. Rusmir Halilović, mio ex assistente nel Bosna che avevo scelto come guida della nazionale juniores, aveva lavorato bene su di lui facendogli tenere molto la palla in mano, più di quanto facesse nel Šibenka: meno realizzatore e più creatore di gioco, quindi. Giocammo contro tante università americane di primissimo piano, nell’epoca in cui il basket di college era al massimo della sua importanza. E il ricordo più bello è legato alla partita del 5 dicembre contro la North Carolina allenata di Dean Smith, con in campo Sam Perkins, James Worthy e Michael Jordan, la squadra che quattro mesi dopo avrebbe vinto il titolo NCAA. In quella partita Dražen giocò poco, il protagonista fu Dalipagić che con 41 punti ci portò al supplementare, che poi perdemmo.
Quali erano i segreti delle squadre jugoslave nelle coppe europee? Italiani e spagnoli se la prendevano con gli arbitri mandati dalla FIBA di Stanković…
Nessun segreto, soltanto alcune generazioni di campioni più qualche fuoriclasse come Dražen. Quanto agli arbitri, mi ricordo bene la finale di Coppa Campioni del Bosna contro Varese, quando negli ultimi tre minuti, quando eravamo ormai sul più 13, consentirono di tutto a quella che era la squadra europea più forte del decennio. Il Cibona non era certo protetto, così come la Jugoplastika. Da ricordare che erano tutte squadre prive di stranieri. Quanto allo stile di gioco, quel ‘penetra e scarica’ alla jugoslava che ai tempi veniva deriso da qualche addetto ai lavori adesso è diventato di fatto lo schema unico di gioco nel basket di tutto il mondo.
Dopo il Mondiale del 1990 e l’episodio della bandiera strappata da Divac la pallacanestro jugoslava si accorse di quanto da qualche anno stava avvenendo nel paese. Cosa pensa del Dražen simbolo dell’indipendenza croata?
Sicuramente si è trovato fra due fuochi. Da persona assolutamente priva di interesse per la politica è stato chiamato, nel giro di pochi giorni, a prendere posizione su tutto e in molte dichiarazioni ha un po’ esagerato, senza rendersi conto del peso delle sue parole. Come per molti di noi, la sua famiglia aveva origini e parentele in varie zone della Jugoslavia e quindi non poteva dirsi al 100% appartenente ad una etnia. Però è stato decisivo l’ambiente in cui è cresciuto e il fatto che frequentasse quasi soltanto i parenti per parte di madre. Per dire: Bodiroga, suo parente per parte di padre, lo ha conosciuto quando Dejan era già quasi maggiorenne. Ma il punto è che Dražen è stato strumentalizzato da chi voleva dividere la Jugoslavia, con una guerra che come molte guerre nella storia è stata imposta da una minoranza estremista ad una maggioranza disattenta che troppo tardi si è resa conto del pericolo.
Nella pallacanestro jugoslava c’erano divisioni etniche?
No, quasi fino alla fine della Jugoslavia. Nessun giocatore, tanto meno uno come Dražen che pensava soltanto alla pallacanestro, prevedeva che il paese si sarebbe spaccato. Certo c’era qualcuno, tipo Vranković, che faceva la parte del patriota croato, ma credeva così tanto nella Croazia che quando è diventata indipendente è andato a vivere all’estero. In generale gli sportivi erano la categoria che si sentiva più jugoslava ‘dentro’, percepivano chiaramente cosa ci tenesse insieme.
Quanto ha influito sulla formazione di Dražen il fatto di essere cresciuto in un paese comunista?
Penso poco. Anche perché il comunismo degli anni Settanta, nella fase finale di Tito, riguardava soltanto gli apparati amministrativi. Confrontati ai paesi del Patto di Varsavia eravamo liberi… Anche di guadagnare quei pochi soldi che giravano. I club erano di proprietà pubblica, di solito, con qualche sponsor trovato qua e là. Ogni giocatore aspettava i ventotto anni per guadagnare in qualche campionato in Italia o in Spagna quello che non aveva guadagnato fino a quel momento. Diciamo che per emergere in quel contesto ci volevano forti motivazioni e fra queste i soldi non erano la principale, visto che si sarebbe potuto guadagnare qualcosa solo a fine carriera. Mi ricordo che Radovanović nei primi tempi al Bosna veniva pagato soltanto con vitto e alloggio, con il club che entrava nel merito della nota spese se per caso mangiava un uovo in più. Non era insomma un paese ricco, ma c’era un’idea forte di convivenza che adesso in tanti rimpiangono. Soprattutto vedendo che il debito pubblico di un singolo stato è il triplo di quello della Jugoslavia unita.
Estratto dell’intervista esclusiva fatta a Bogdan Tanjević, contenuta nel capitolo 38 del libro ‘Gli anni di Dražen Petrović – Pallacanestro e vita’, di Stefano Olivari. La versione cartacea, 250 pagine, è in vendita sul sito della Hoepli, su Amazon e fisicamente in tante librerie: la stessa Hoepli, la Libreria dello Sport, gran parte delle Feltrinelli e delle indipendenti. Prezzo dai 17 ai 20 euro, a seconda dei rivenditori. Disponibile anche a 6,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, per iTunes di Apple (quindi iPad, iPhone, iPod Touch e Mac), Kobo di Mondadori e per tutti gli altri eReader attraverso la piattaforma di BookRepublic. Distributore in esclusiva di questo e degli altri libri di Indiscreto: Distribook srl.