Vittorio De Scalzi, tra New Trolls e Sampdoria

25 Settembre 2020 di Paolo Morati

A partire dagli esponenti della sua cosiddetta ‘scuola’ di cantautori, Genova ha contribuito alla storia della musica italiana moderna mettendo a disposizione un nutrito gruppo di artisti che ne hanno segnato le tappe in modo importante. Abbiamo avuto la possibilità di intervistare uno di questi, Vittorio De Scalzi, fondatore dei New Trolls e autore in 50 anni di carriera di diversi brani entrati di diritto nell’immaginario collettivo, proprio mentre è impegnato nella stesura della sua biografia.

“È un progetto a cui sto lavorando insieme a Massimo Cotto – ci spiega – e che comprenderà anche un CD e un DVD. Il CD sarà il riepilogo di un anno di concerti mentre il DVD proporrà il mio spettacolo Il suonatore Jones, con band estesa e anche brani di Fabrizio De André, tenutosi qualche anno fa al Teatro della Tosse di Genova”.

Partiamo proprio da Genova, la sua città. Che ricordi ha della sua infanzia e del contesto in cui è cresciuto? Suo padre aveva un ristorante…

Ne ha avuti più di uno e io sono nato appunto in uno di questi, dove mia mamma, che era pianista, aveva anche il ruolo di cuoca. Inoltre il posto, che aveva in sala un grande pianoforte a coda, era frequentato da personaggi come Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e Fabrizio De André, al quale da bambino mi era capito di presentare i miei ‘esperimenti’ suonati attraverso una chitarrina di plastica con tanto di altoparlante incorporato…

Insomma, quasi un predestinato. Quali sono i generi che l’hanno influenzata maggiormente?
Dapprima sicuramente l’ascolto del rockabilly e poi l’arrivo dei Beatles. Non certo la musica melodica italiana, anche se non voglio sminuirne il valore, a partire dalla canzone napoletana dalla quale di fatto nasce la forma canzone. Io però ascoltavo altri generi e a Genova potevamo considerarci dei privilegiati perché attraccavano le navi che portavano in Italia le novità discografiche, che arrivavano anche un anno dopo rispetto al paese di origine.

Veramente altri tempi. E arriviamo alle prime band…
La mia prima band, nel 1966, si chiamava Trolls e non includeva alcuno degli elementi che poi avrebbero fatto parte dei New Trolls, nati appunto un anno dopo con diversi musicisti sottratti ad altri gruppi, ‘distruggendone’ di fatto tre. In sostanza portai avanti una sorta di ricerca, scegliendo quelli che ritenevo migliori e proponendo loro di unirsi a me. I primi ad aderire furono Gianni Belleno, batteria, e Giorgio D’Adamo, basso, e proprio lo stesso anno fummo scelti per aprire i concerti dei Rolling Stones in Italia. Una fortuna dovuta a mio padre, che conosceva l’organizzatore del tour e che ci fece siglare il primo contratto.

Cosa ricorda di quella esperienza su un palco così importante?
In quella occasione, vedendo in azione i Rolling Stones, più che a suonare abbiamo imparato a fare spettacolo. Proponevamo un repertorio di cover. Di fatto non avevamo ancora nostre canzoni e tra i brani presentati mi ricordo Take a heart dei Sorrows. Successivamente entrò nella band anche Nico Di Palo, che avevo ascoltato in un locale dove si esibiva con la formazione dei Bats e che, inizialmente riluttante, accettò la mia proposta anche attratto dal fatto che eravamo appunto tra le band che avevano aperto i concerti dei Rolling Stones. E da lì poi arrivammo a realizzare il primo album.

Parliamo di Senza orario senza bandiera
Sì, questo disco è da considerarsi il primo concept album della musica italiana, avendo un unico filo conduttore, quando nel nostro Paese si incidevano ancora solo 45 giri e raccolte di singoli. In Europa erano invece già arrivati i Beatles con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Il disco era basato sui testi del poeta Riccardo Mannerini, con produzione e arrangiamenti di Fabrizio De André e la collaborazione di Gianpiero Reverberi, con il quale avremo poi lavorato di nuovo molti anni dopo, per America Ok, insieme a Mogol. Nel frattempo, e siamo negli anni Settanta, fondai un’etichetta discografica, la Magma, insieme a mio padre e mio fratello Aldo, poi autore di colonne sonore. Un’etichetta dedicata esclusivamente al genere progressive.

Prima però usci Concerto grosso per i New Trolls, considerato una pietra miliare del genere, con le musiche di Luis Enríque Bacalov. Cosa ci può raccontare di quel disco?
Il merito del progetto fu di Sergio Bardotti che lo produsse. Lo registrammo presso la Fonit Cetra in Via Meda 45 a Milano, e in parte anche a Roma. Gli studi della Fonit si trovavano in una fabbrica vera e propria, visto che lì venivano anche stampati i vinili. Un edificio enorme. Ecco che nella grande sala registrammo il lato A con l’orchestra e la band a suonare insieme. Il lato B invece, non a caso intitolato Nella sala vuota, raccoglieva una serie di improvvisazioni in presa diretta per un unico pezzo lungo oltre 20 minuti, montando l’impianto come se fossimo dal vivo e registrando dalle relative colonnine. Concerto grosso è stato un grande successo, vendendo nel tempo oltre un milione di copie e lo potrei definire un disco di matrice shakespeariana, a cominciare dal verso ricorrente “to die to sleep”. Un’opera che ancora oggi mi permette di fare lunghi tour anche all’estero, in Corea e Giappone così come in Messico.

Una storia, quella dei New Trolls, che ha visto più volte divisioni e ritorni, con anche rispettivi progetti paralleli…
Va detto che eravamo certamente degli irrequieti in senso positivo, ciascuno sempre alla ricerca di una propria strada. E forse non è un caso che il disco successivo a Concerto Grosso, un doppio album in inglese, decidemmo di intitolarlo Searching for a land, in pratica eravamo alla ricerca di una terra che in realtà non avevamo ancora trovato.

Proprio in quel periodo De André vi propose di accompagnarlo nel suo primo tour…

Eravamo a metà degli anni Settanta, ma io e Nico rifiutammo di seguirlo sentendoci ancora molto legati al progressive dal quale non volevamo allontanarci, mentre sia Belleno sia D’Adamo dissero di sì. Certamente di De André oggi si ricorda di più il tour insieme alla PFM, e con un po’ di presunzione mi chiedo se sarebbe andata diversamente con anche la nostra partecipazione. Tra l’altro io avevo in precedenza suonato la chitarra acustica nel suo album Non al denaro non all’amore né al cielo.

Avete esplorato più generi, dal rock progressive al pop. Qual è stato il. denominatore comune di questa evoluzione e qual è il genere in cui si ritrova oggi maggiormente?
In quel periodo, siamo ancora negli anni Settanta, avevamo molto successo e ogni cosa che producevamo entrava in classifica, tenendo inoltre centinaia di concerti l’anno. A un certo punto però il progressive non sembrava funzionare più e, considerato che avevamo anche la vocalità dalla nostra parte, abbiamo deciso di provare una strada più vicina al pop. Nel frattempo ho continuato comunque a scrivere brani anche per altri cantanti, ma preferirei essere ricordato più per la parte prog.

Si è anche dedicato allo studio della musica dialettale genovese…
L’ho fatto agli inizi, compiendo diverse ricerche con la mia etichetta e producendo canzoni per nomi molto popolari come I Trilli, vendendo decine di migliaia di copie, o il trio Universal, e registrando anche i vari cori tralalêro nelle diverse valli dell’entroterra. Nel 2008 ho quindi realizzato un album in genovese intitolato Mandilli (fazzoletti) interamente di brani miei. Credo che il dialetto sia fondamentale come elemento di ricchezza, fa parte di quelle radici che purtroppo si stanno perdendo. Perché l’italiano è una lingua che si evolve ma il dialetto invece no, mentre andrebbe conservato. Per riuscirci bisognerebbe anche fare qualcosa come dischi non per vendere ma per mantenere determinati legami.

Cosa ne pensa della scuola genovese alla quale spesso si fa riferimento?
Parliamo di un determinato periodo in cui Genova offriva alcuni cantautori, come è successo per la scuola romana, quella bolognese… ma forse quella genovese è stata la prima del genere, magari perché città di mare o magari perché comunque vicina alla Francia degli chansonnier che inizialmente ha ispirato proprio De André.

Qual è il suo giudizio sulla scena musicale attuale?
Premetto che non sono tra quelli che sostiene che ieri fosse meglio e oggi peggio. La musica continua a evolversi e questo è senz’altro positivo, si nota oggi molto fermento al di là che quanto prodotto possa piacere o meno. E questo l’ho imparato seguendo le produzioni di mio figlio in ambito rap, anzi forse trap… quando lui schifava da ragazzo la musica dei New Trolls collegandola al pop, per poi successivamente entusiasmarsi per Concerto grosso senza sapere inizialmente che fosse un mio disco.

Esistono però delle differenze?
Posso aggiungere che le nuove generazioni sono per certi versi più preparate a livello tecnico di quanto non fossimo noi, ad esempio su uno strumento come la chitarra. Ma questo per la semplice ragione che, al di là dello studio, oggi in rete è possibile trovare tutto quanto serve per osservare e approfondire gli stili di chi suona, per cui è più facile ‘imitare’. Noi al contrario inventavamo, guardando ad esempio come suonava la chitarra Jimi Hendrix.

Ci sarebbe spazio oggi per delle session di una ventina di minuti su disco come quelle dei New Trolls?
Ritengo di sì e che oggi si stia appunto tornando verso questo tipo di composizioni, c’è più apertura per le invenzioni laddove in passato si era diventati più tradizionalisti. E poi c’è il ritorno del vinile. Fondamentale è l’ascolto di insieme. Sedersi in poltrona, non saltare le tracce, il che crea un forte legame con la creatività dell’artista e il suo valore.

Cosa ne pensa dell’uso spinto dell’autotune che  caratterizza generi come appunto la trap?
Ritengo che sia solo una moda del momento destinata a passare. L’autotune è oggi sostanzialmente usato per dare un effetto particolare alla voce e non per intonare. Tra qualche anno vedremo cosa effettivamente accadrà, un po’ come è successo per certi abiti orribili, come i ‘pinocchietti’, che venivano indossati solo perché di moda.

Lei suona diversi strumenti, dal pianoforte alla chitarra, passando per il flauto. Qual è quello a cui si sente più legato?
Non posso sceglierne uno in particolare, perché passo continuamente da uno strumento all’altro. Quando suono lo stesso pezzo dapprima con uno strumento e poi con un altro riesco a individuare caratteristiche e mondi che in precedenza non avevo notato. Se scrivo una canzone per pianoforte e poi la trasporto per chitarra è come se mi rinnovassi continuamente. Ma lo strumento più bello di tutti, un enorme dono, è la voce, che va tenuta sempre allenata e, alla mia età, mantenuta. Per cui mi esercito continuamente.

Una canzone importante che ha scritto per un altro artista è Soli, per Drupi, che si classificò terza a Sanremo nel 1982…
A Sanremo sono stato otto volte e Soli è stato l’unico vero successo ottenuto, anche se in realtà, come New Trolls, ci siamo sempre comportati in modo onorevole. Tra le edizioni che ricordo maggiormente ci sono quella del 1985 dove partecipammo con Faccia di cane, il cui testo di De André, che si firmò con uno pseudonimo, vinse anche un premio. E poi quello del 1996 quando presentammo Letti insieme a Umberto Bindi, scritta con Renato Zero<.

Da non dimenticare anche Quelli come noi, un pezzo a dir poco poderoso dal punto di vista degli arrangiamenti…
Certamente. Non a caso con La storia dei New Trolls oggi vi apriamo i concerti, insieme a Una notte sul Monte Calvo. Nei concerti piano e voce presento invece anche altri brani di cui sono stato autore come la già citata Soli e Tutti i brividi del mondo. E ancora propongo lo spettacolo Il suonatore Jones dal titolo di un brano di De André che recita “e poi se la gente sa e la gente lo sa che sai suonare suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare”.  Ho lavorato anche con il quartetto d’archi Gnu Quartet e infine con la grande orchestra per i ‘concerti grossi’ che in Italia e nel mondo. Lo scorso anno ne ho ad esempio tenuti 10 con l’Orchestra Magna Grecia.

Arriviamo infine al calcio. Lei è tifoso della Sampdoria. Come è nata questa fede?
Da mio padre che mi portava alla stadio: inevitabilmente sono diventato anch’io tifoso della Sampdoria. Se posso fare un commento, all’esordio della stagione abbiamo appena incassato tre gol dalla Juventus ma ci è andata bene, anzi è stato un buon risultato. Io sono rimasto legato ai tempi della gestione Mantovani e di quella di Garrone, e adesso siamo in un momento di sofferenza ma è proprio in questi frangenti che si vede il vero tifoso di una squadra. Squadra che in passato ha dato grandi soddisfazioni. Negli anni Ottanta con la prima Coppa Italia era come aver vinto la Coppa del mondo, un grande traguardo per una squadra giovanissima, fondata nel 1946, a differenza dei cugini genoani con scudetti che oggi praticamente nessuno può ricordare di aver vissuto di persona. E poi abbiamo la maglia più bella del mondo…

Squadra alla quale ha anche dedicato progetti musicali…
Insieme a mio fratello Aldo nel 1991, anno dello scudetto, abbiamo realizzato un album intitolato Sampdoria – Il Grande Cuore Della Sud, con dieci canzoni. Quella che i tifosi ancora oggi cantano si intitola Lettera da Amsterdam, anche se non cita mai la Sampdoria esplicitamente. Parla di due amici uno dei quali si trasferisce ad Amsterdam e scrive una lettera di ricordi e chiedendo “chissà com’è adesso la domenica con lei”. Per lo stesso disco campionammo anche la voce di Boskov per un brano dance contenuto nell’album. Si sentiva la sua voce che diceva ad esempio “lui come cervo che esce di foresta”.

Vialli o Mancini?
Impossibile scegliere. Li voglio tutti e due insieme.

Chiudiamo con i progetti futuri…
Insieme al progetto di cui ho parlato in apertura ho scritto, durante il periodo di lockdown, un brano intitolato Quelle navi e dedicato appunto a Genova. Un brano accompagnato da un video che mostra la città dal tramonto all’alba. Con le navi intese come simbolo di rinascita…

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