L’orecchio di Enzo Jannacci

5 Settembre 2020 di Paolo Morati

Nel 1980 Enzo Jannacci pubblica Ci vuole orecchio, la prima sua canzone che ricordiamo di aver ascoltato, presi immediatamente pur senza coglierne ancora appieno le sfumature liriche e sonore. Personaggio unico nel panorama italiano, con alle spalle già un ventennio di carriera enorme, tra spettacolo, canzone e teatro, e brani atipici, stralunati e indimenticabili come Vengo anch’io, No, tu no, L’Armando, El portava i scarp del tennis… lo stesso anno esce quindi con un album di grande successo intitolato come quel singolo così coinvolgente.

Milanese nel profondo, medico chirurgo e artista geniale, immerso nella terra di mezzo in cui viveva, collaborando con personaggi come Giorgio Gaber, Dario Fo, Beppe Viola, Cochi e Renato…, Jannacci arriva all’inizio del nuovo decennio dopo un periodo coerentemente diviso tra le sue due attività (e la specializzazione negli Stati Uniti, da leggere questa intervista), aprendo la nuova opera con Musical, canzone dalla partenza malinconica, racconto breve di situazioni al limite (“Tu che non parli nemmeno se putacaso domani ci chiudono tutta la fabbrica mi guardi come si guarda un parente e mi dici questo è il momento del musical”), in anticipo sulla title track scritta insieme a Gino e Michele (“Ey, dal vivo oggi non si può più cantare, l’orchestra è ormai quattro misure dopo, i fiati hanno già fatto il loro gioco, anche il sassofono va via in gol e lascia fare”). Successo clamoroso, che inconsciamente, ancora bambini, ci riportava ai cori di E la vita, la vita di Cochi e Renato (non a caso proprio scritta da Jannacci insieme a Pozzetto).

Una canzone, quella del “pacco immerso dentro al secchio”, da sentire rigorosamente in cuffia per coglierne appieno tutta la moltitudine di colori e rintocchi di rimando alla storia narrata. La metafora e la comprensione del testo di Ci vuole orecchio l’avremmo capita anni dopo, probabilmente come tutti quelli distratti dalla sua grande orecchiabilità (appunto), così come l’amore gay di Silvano, già realizzata con (e da) Cochi e Renato nel 1978, e qui presentata in tutta la sua profondità di giochi di parole.

Fotoricordo… il mare è un bluesaccio soul, “Qualcuno doveva stare, stare vicino al mare, vederlo venire e andare, andare e venire, vederlo schiumare”, La sporca vita è una cover di un brano di Paolo Conte (“Se non avessi questa vita morirei in un terrore di vacanze mi perderei gioco all’asfalto i piedi non mi reggerei dalla valvola del cuore perderei”) e il Il dritto (“Diceva lui di odiare l’amore, ma scoppiava il suo cuore”) è una riproposizione, rivestita, di una decina di anni prima, per arrivare a Si vede: qui Jannacci ci spiazza e commuove nel finale che dà senso a tutta la storia mentre si sta ancora cercando di capire dove vuole arrivare (“Ed è già tardi e sei sempre in ritardo e mi vieni incontro con un ombrello che non è quello che ti ho regalato io”).

Il grande pezzo da 90 di Ci vuole orecchio, emozionante nell’andamento e nel canto, ma più dimenticato rispetto ai classici, è tuttavia Quello che canta onliù (“E quando mi dirai che anticamente masturbarsi era peccato veniale, quando capirai che umanamente è l’insalata che mancava di sale, e dopo arriverà la sera e capirai che la mattina dopo non poteva più arrivare”). Un brano che ti prende il cuore, roba da trapianto urgente. E non poteva che essere così…

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