Cesare Albé, l’addio del Ferguson della Martesana

24 Settembre 2020 di Gianluca Casiraghi

Il 2020 è un anno pieno di anniversari per Cesare Albè, l’ormai eterno allenatore della Giana in Serie C, da 26 anni sulla stessa panchina e quindi ad una stagione dai 27 di Sir Alex Ferguson con il Manchester United. Proprio dal manager scozzese nasce il suo soprannome di “Ferguson della Martesana”. Per l’allenatore nato e sempre vissuto a Cassano d’Adda, in provincia di Milano, nel 2020 sono 70 primavere e 40 anni sulle panchine, praticamente, di tutte le categorie dalla Terza sino alla C.

Si parte dall’ormai 1980 in cui esordì in Terza categoria con la Pierino Ghezzi, società dell’oratorio Don Bosco di Cassano d’Adda, squadra in cui aveva militato da calciatore, fino a giungere a oggi, in quello che potrebbe essere l’ultimo anno sulla panchina della Giana e di qualsiasi squadra.

Sono 26 anni che sono a  Gorgonzola? Sai che potrebbero essere anche di più? –  Ha cominciato a raccontarci, ridacchiando, Albé – Sono ancora alla guida della Giana dopo un così lungo periodo per il mio rapporto praticamente unico con il presidente Oreste Bamonte, l’uomo che dopo un paio di tentativi era riuscito a portarmi a Gorgonzola alla fine dell’esperienza con il Cassano. Gli impegni familiari tra figli e nipoti e la salute non più di ferro, sia mia sia di mia moglie, mi hanno fatto pensare a un passaggio di consegne con il mio attuale vice Andrea Ardito, con cui sto allenando in simbiosi in questa prima fase. Lo dico qui per la prima volta: la mia intenzione sarebbe addirittura di consegnare la squadra ad Ardito già con l’inizio del campionato o, se non sarà possibile così in fretta, durante la stagione con un approccio più morbido. Sono sicuro di lasciare la mia adorata Giana in buone mani”.

Auguri ad Ardito, quindi, ben ricordato come centrocampista di Como, Siena, Torino e Lecce. Facciamo però adesso un balzo lungo all’indietro sino al 1980, sul campo spelacchiato della Pierino Ghezzi. Come nasce la decisione di sedersi in panchina?

“Avevo smesso di giocare proprio nella Pierino Ghezzi nei primi anni Settanta, in concomitanza con la mia partenza per il servizio militare. Al ritorno da borghese ero diventato osservatore dei bambini per il Milan, la mia squadra del cuore, e l’ho fatto per sei/sette anni. Poi nel 1980 un mio ex compagno nella Ghezzi, Rizzo, che era diventato presidente della società di Cassano d’Adda, il mio paese di nascita e di residenza, mi ha chiesto di prendere in mano la formazione di Terza categoria e di seguire anche il settore giovanile. E così è iniziato il mio quarantennio di panchine”.

Facciamo un salto all’attualità: tu, come quasi tutti gli allenatori, sei partito dalla gavetta, dalla Terza categoria per giungere fino ai professionisti della Serie C con il miracolo Giana. Cosa ne pensi del tuo nuovo collega Pirlo che, senza una panchina nemmeno con i Pulcini nel curriculum, ha esordito pochi giorni fa in Serie A alla guida della Juventus contro la Sampdoria?

“Non lo voglio giudicare prima di aver visto i risultati, per adesso la prima con la Sampdoria è andata benissimo. Sta di fatto che difficilmente la Juve sbaglia un scelta e se ha preso Pirlo come tecnico avrà ben ponderato tutti gli aspetti. E poi, c’è stato il caso di Mancini, anche lui è passato subito dal campo di gioco al ruolo di allenatore senza fare anticamera e i risultati ci sono stati”.

Mancini è l’esempio di un grande calciatore che è diventato anche un ottimo allenatore, però i casi non sono molti: credi che per diventare bravo in panchina sia meglio non aver avuto un buon curriculum da calciatore?

“Effettivamente nella storia del calcio non sono stati tanti i fuoriclasse o grandi calciatori a eccellere anche in panchina, probabilmente l’ex giocatore di alto livello pretende dai suoi ragazzi le stesse cose che lui faceva in campo. Ma se lui era un fuoriclasse e le cose gli venivano facilmente, per tutti gli altri “normali” non è così semplice. Mi ricordo le parole non proprio lusinghiere di Luisito Suarez quando allenava l’Inter in una trasmissione di Telenova a riguardo di un suo giocatore, credo Dino Baggio, non proprio uno qualunque ma che non poteva essere bravo come il giovane Luis”.

Torniamo alla tua carriera, quando dalla Pierino Ghezzi ti sposti di meno di un chilometro e vai ad allenare l’Under 18 regionale del Cassano.

“Infatti, mi ricordo l’aneddoto del presidente del Cassano sul mio rimborso spese, mi chiese dove abitavo, “Vicino al Naviglio, poco prima di Groppello” (Una frazione di Cassano d’Adda, nda) risposi. E lui: “Ah, ben, alura ta veniet in bicicletta”, rilanciò in milanese. E di rimborso spese mi diede 40mila lire al mese. Tra l’altro con il calcio non è che mi sono arricchito, anche in queste stagioni in C con la Giana ho dovuto, per forza, firmare il contratto da professionista, l’ho fatto al minimo e facendo il cumulo con la pensione non rimane molto”.

Con i granata del Cassano ci sono i tuoi primi successi, un campionato regionale Under 18 e soprattutto la promozione con la Prima squadra dall’Eccellenza all’Interregionale, l’attuale Serie D.

“Dal punto di vista sportivo la seconda è la più importante, per il Cassano andare in Interregionale fu una cosa incredibile, anche se ci rimanemmo soltanto un anno, però la vittoria che ricordo con più piacere fu quella con i giovani dell’Under 18. Trionfammo all’ultima giornata e ancora mi vengono i brividi a ricordare la canzone di Maradona, adattata con il mio cognome, che mi cantarono i miei giocatori negli spogliatoi”.

Passiamo al 1994, quando inizia il tuo “regno” a Gorgonzola con la Giana Erminio, dalla Promozione fino all’impensabile approdo in Lega Pro nel 2014, dopo tre campionati consecutivi vinti in Promozione, Eccellenza e Serie D.

“In verità, la mia carriera alla Giana sarebbe potuta iniziare anche qualche anno prima e adesso, quindi, saremo vicini alle 30 stagioni, il presidente Bamonte mi aveva già cercato una prima volta ma ero rimasto al Cassano. Tornato alla carica una seconda volta è stato bravo a convincermi, soprattutto a riattivare il fuoco della voglia di allenare che si stava spegnendo. Dico la verità, volevo smettere e dedicarmi alla famiglia e al lavoro. Invece, siamo al 2020 e sono ancora sul campo. Tutta colpa di quell’uomo lì, il presidente Bamonte, con il quale c’è un rapporto più che speciale. Il nostro sodalizio mi ha aiutato a restare in panchina sino a ora ma sono stato anche bravo a non farmi travolgere dai dubbi che attanagliano sempre un mister; ogni volta che tornavo a casa da una partita, rimuginavo sugli errori fatti, però poi capivo che non sarebbe cambiato nulla e mi addormentavo sereno”.

Dall’alto della tua esperienza, puoi dirci se un tecnico di C potrebbe allenare in A?

“Escludendo me, che a 64 anni mi sono ritrovato a Coverciano in mezzo a tanti giovincelli per prendere il patentino Uefa A per allenare nei professionisti, tutti i miei colleghi sono preparatissimi e se ne avessero l’occasione sono sicuro che si troverebbero a loro agio anche su una panchina di Serie A. Bisogna avere l’occasione giusta e una società che ti protegga e difenda la propria scelta, e in questo caso cito sempre come esempio la Juventus”.

E Cesare Albé ha mai sognato di sedersi su una panchina di Serie B o addirittura di A?

“Credo sia la speranza di ogni persona che intraprenda questa carriera, però sono sincero quando dico che tutto quello che ho avuto, ho raggiunto e che il buon Dio mi ha voluto regalare è stato anche fin troppo. Forse ho più ricevuto che dato nel mondo del calcio, da dirigenti, giocatori e colleghi. Ricordiamoci sempre che fino al 2013 ero arrivato al massimo in Eccellenza, dopo in tre stagioni sono passato dalla Promozione addirittura alla Lega Pro o Serie C che dir si voglia”.

Oggi nel calcio è molto abusato l’appellativo di “Maestro” per i mister, c’è qualche tuo collega che si merita tale titolo?

“Quando sono stato a Coverciano, Renzo Ulivieri disse un gran bene di Marco Giampaolo, maestro di tattica, però da vecchio tifoso milanista sono rimasto deluso dalla sua esperienza nel Milan e quindi non mi sento di poterlo chiamare così. Gli unici a cui mi sento di dare del Maestro sono Nereo Rocco e Carlo Ancelotti, allenatori capaci di fare gruppo, anzi direi famiglia. Se potessi ritornare ai miei 20 anni, quando ancora ero in campo, mi sarebbe piaciuto essere allenato da uno di loro. Nel mio piccolo ho sempre privilegiato l’aspetto umano, ancora più importante tra i dilettanti. Restando al mio amato Milan, Arrigo Sacchi è stato un grandissimo ma gli preferisco Rocco e anche Ancelotti”.

Passando dai tuoi colleghi ai calciatori, qual è il più forte che hai allenato?

“Non è la prima volta che mi fanno questa domanda e anche questa volta preferisco non rispondere, i calciatori di oggi sono troppo permalosi e qualcuno si offenderebbe di sicuro”.

Il più bravo tra gli avversari?

“Ne dico due, uno incontrato tra i dilettanti, Serra del Sondrio, e uno tra i professionisti Pinardi, che poi ho anche allenato alla Giana. Entrambi centrocampisti, che mi hanno fatto impazzire perché erano imprendibil per la loro caratteristica di sapere già dove mandare il pallone prima di riceverlo”.

Chi, invece, poteva diventare un campione e si è perso per strada?

“Giacomo Scicchitani, centrocampista di fascia, mancino, talento e piede sensibile, per lui in campo prima c’era il “noi”, poi c’era l’“io”. Purtroppo parecchi problemi e infortuni alla schiena e qualche interferenza extra-calcistica non gli hanno permesso di andare più in là dell’Eccellenza”.

Prendendo spunto dall’Eccellenza, una domanda cattiva: nel mondo del 2020 qual è il senso del calcio al di sotto della A?

“Ce l’ha un senso, resta il calcio vero, il migliore secondo me. Ma è un mondo che va sostenuto economicamente. Serie A e B si mantengono da sole anche se ci sono meno soldi di una volta, la C va aiutata per non essere la sorella povera degli altri due campionati professionistici italiani. Anche il trattamento diverso avuto alla ripresa dopo l’interruzione per il Covid non ha avuto un senso, non fare concludere il campionato e far disputare soltanto playoff e playout è stata la classica “Una scarpa e una ciabatta”. Inoltre, ricordo che la Giana aveva giocato una partita in meno delle altre e si è ritrovata a disputare i playout, perderli con l’Olbia e retrocedere. Ero convinto che Bamonte non volesse più stare tra i professionisti e volesse ricominciare dalla D, invece ha voluto fortemente la riammissione in C. Lo conosco da quasi 30 anni ma questo uomo qui mi sorprende sempre”.

Dalle tue parole si capisce che, nonostante tu stia iniziando la settima annata tra i professionisti con la Giana, il tuo amore per il calcio dei dilettanti resti incondizionato. Spesso hai dichiarato: “Quanto mi mancano le trasferte a Bellinzago o Concorezzo”, solo per citare due paesi a caso della Martesana e della Brianza.

“Il mio sogno resta sempre un girone di Eccellenza della Martesana composto da Cassano, Vapriese, Cologno, Carugate, solo per fare alcuni nomi di società gloriose, anche se mi accorgo che alcune di esse non esistono più. Io mi sento sempre un dilettante e soprattutto un tifoso di calcio, del Milan da sempre, e del pallone giocato sui campi polverosi di provincia”.

Con una passione così è proprio arrivato l’ultimo ballo in panchina di Cesare Albé da Cassano d’Adda? In fondo anche il Ferguson vero il suo addio lo aveva annunciato diverse volte, prima di salutare davvero. La storia, forse, continua….

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