Quel razzista di Muhammad Ali

10 Luglio 2020 di Stefano Olivari

I am Ali è il nuovo appuntamento di Sky Sport con i documentari sportivi introdotti da Federico Buffa. Fra i tanti lavori dedicati ad uno dei personaggi sportivi più famosi di sempre questo è più centrato sul Clay-Ali privato e meno su quello politico, pur importantissimo. Comunque ben fatto, pur aggiungendo poco alla grandezza di un uomo che non ha mai lasciato indifferenti. Fra l’altro la differita RAI di Ali-Foreman, la famosa sfida di Kinshasa nel 1974 organizzata da Mobutu e Don King, nell’anno sportivo d’oro dello Zaire, è il nostro primo ricordo pugilistico.

Questo documentario è per noi un pretesto per tornare sulla questione razziale, che secondo qualcuno si può risolvere abbattendo le statue del passato e secondo altri dicendo invece che va tutto bene. Personalmente, Islam a parte, la pensiamo esattamente come Ali: le razze esistono, lo stesso movimento Black Lives Matter lo conferma, affermare il contrario per il quieto vivere non può nascondere la realtà. E dire che esistono non significa che una sia superiore o abbia più (o meno) diritti di un’altra. In altre parole, non ci disturba sentir parlare di ‘neri’, ma, questo il punto politicamente scorretto, nemmeno di ‘bianchi’.

Tornando ad Ali, tutti ricordano l’annuncio della sua conversione all’Islam dopo la vittoria con Sonny Liston, con tanto di “Abbandono del mio nome da schiavo”, ma non cosa significasse la Nation of Islam, cioè il movimento in cui entrò il campione. Semplicemente era una setta che si proponeva non di diffondere l’Islam nel mondo, ma di creare all’interno degli Stati Uniti uno stato uniforme per razza (nera) e religione (islamica), totalmente separato dall’America dei bianchi. Uno stato compatto su base etnica e religiosa, come teorizzato da dittatori sanguinari ma anche da conservatori intelligenti e relativamente democratici (De Gaulle il primo esempio che viene in mente). Ne parliamo al passato, ma la Nation of Islam esiste ancora oggi, diretta da tempo immemorabile da Louis Farrakhan, anche se è uscita dal dibattito e non è difficile capire perché.

Sulla questione razziale Ali era ben lontano dal politicamente corretto: le razze esistono e tutti devono rispettare tutti, ma soprattutto la propria identità. Per questo la sua figura, rispettata unanimemente ben prima dei dei brividi provati ai Giochi di Atlanta (ve li immaginate Federer, Cristiano Ronaldo o Hamilton rinunciare ai loro 4 migliori anni di carriera per protestare contro una guerra? Lì Ali idolo per sempre), non è certo fra quelle iconiche del Black Lives Matter. Ali era razzista? Mai ha affermato che i neri fossero superiori ai bianchi, e ovviamente nemmeno il contrario, né che dovessero ammazzarsi fra di loro. Un buon punto di partenza per sconfiggere il razzismo, cioè che qualcuno sia per diritto di nascita superiore ad altri, è accettare la realtà. Peccato che negli anni d’oro di Ali non esistesse il Tg3 a spiegare che “L’America è divisa”.

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