Pubblicità su Facebook

7 Luglio 2020 di Stefano Olivari

Facebook ha perso pubblicità a causa della mancata censura dei post di Donald Trump? Tutti abbiamo letto che grandi aziende (Coca Cola, Microsoft, Starbucks, Verizon…) hanno ridotto o annullato il loro budget pubblicitario su Facebook e Instagram nel nome del politicamente corretto, visto che all’ultima rilevazione Trump risulta essere presidente degli Stati Uniti. #StopHateForProfit è l’hashtag più ridicolo mai visto, considerando la spazzatura (cioè i veri sentimenti di molti) presente sui social network protetta da un sostanziale anonimato.

La pubblicità su Facebook persa da Zuckerberg a causa di Trump, dunque. Notizia vera per quanto riguarda le aziende che hanno pensato bene di cavalcare la moda del momento, falsa in proporzione al modello di business di Facebook, evidente da ogni statistica e anche dalla semplice osservazione di ciò che circola sui nostri profili. In sintesi: Facebook vive di inserzioni e campagne pubblicitarie di aziende medie e piccole, per il 76% del suo fatturato annuale, che è di 69 miliardi (miliardi) di dollari.

E del rimanente 24%, quello delle grandi corporation, è stato perso molto poco: se chi ha annunciato il suo ritiro da Facebook e Instagram tenesse fede alla sua parola Facebook perderebbe, secondo la stima del Wall Street Journal, soltanto 57 milioni (milioni) di dollari. Si capisce quindi perché questa esibizione mediatica abbia dato fastidio a Zuckerberg, attento come tutti quella della Silicon Valley a sembrare ‘giusto’, ma nella sostanza non gli abbia fatto nemmeno il solletico.

Al di là dell’antitrumpismo di maniera, come se The Donald avesse reintrodotto il razzismo che 8 anni di buongoverno di Obama avevano debellato, la grande questione è un’altra: Facebook (o Twitter, o quello che vogliamo) è un editore o no? Se sì, deve intervenire sui contenuti e in linea di massima può censurare anche una polemica di Balotelli contro Cellino, non necessariamente un gruppo di pedofili o di nazisti. Se no, può per pura immagine solo intervenire ‘dopo’ ed in ogni caso con linee guida oggettive, pur essendo anche questa politica a rischio del ridicolo (si veda ciò che accade per il nudo).

È chiaro che fare gli editori fa sentire fighi, tutti i ricchi veri (vedere Bezos con il Washington Post) prima o poi ci cascano, ma setacciare i post di centinaia di milioni di persone in grande percentuale frustrate ha costi assurdi, incompatibili con il modello di business di tutti questi genietti, cioè fare soldi usando il tempo sprecato da noi.

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