Joy Division, Ian Curtis oggi

8 Luglio 2020 di Stefano Olivari

La nuova edizione di Closer la compreremo al 100%, lo scriviamo subito senza fare gli snobbettini. Perché i Joy Division sono morti giovani, il loro leader Ian Curtis a nemmeno 24 anni, ma sono ancora vivi ben oltre il circuito della nostalgia. Per questo motivo c’è grande curiosità per l’uscita, il prossimo 17 luglio, di una seconda versione del secondo e ultimo album della band di Manchester. L’originale era uscito il 18 luglio del 1980, due mesi dopo il suicidio di Curtis, travolto da epilessia, depressione e problemi personali.

Siccome per i Joy Division abbiamo fatto una malattia e non abbiamo mai avuto bisogno di riscoprirli, né di trovare le loro influenze nella musica di oggi (un po’, ma giusto un po’, Billie Eilish li ha ascoltati…) possiamo superare le considerazioni da nerd sulle canzoni di Closer che non sono quelle dell’album originale (ma era impossibile non mettere Love Will Tear Us Apart, nata come singolo) e sulla rimasterizzazione, arrivando al cuore di un gruppo capace di reinventarsi dopo la morte di Curtis, cambiando nome (New Order) e genere, segnando in maniera indelebile gli anni Ottanta prima di perdersi fra litigi per i soliti motivi.

Che cosa ci prende ancora oggi dei Joy Division? Prima di tutto le atmosfere cupe, più dark della darkwave, con testi che mettono al centro dei pensieri l’oscurità, la pressione, la morte, in generale la pesantezza della vita. Una visione del mondo che può portare al suicidio ma anche ad apprezzare la vita reale, come una specie di tempo supplementare (sono parole nostre, Ian perdonaci) con un finale comunque già scritto.

Non va dimenticato che il primo nome del gruppo era Warsaw, ispirandosi alla Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale ma anche nella Guerra Fredda: come a dire ‘Siamo sopravvissuti’. Quanto al nome Joy Division, viene dal nome del settore di Auschwitz in cui le deportate venivano tenute dai nazisti come oggetti sessuali per pratiche oltre l’atrocità. Insomma, tutta roba allegra.

Da qui la nascita della leggenda dei Joy Division nazisti, comunque riferimento dell’estrema destra, anche per la loro immagine austera, di gusto tedesco, molto diversa da quella stracciona dei rocker e da quella rabbiosa dei punk, al di là del fatto che anche molto rock e molto punk siano per i media nel file ‘destra’. Sicuramente un’immagine ‘bianca’, non alla David Bowie (ci sono sue statue da abbattere?) ma bianca, come la loro musica. Peraltro una considerazione che secondo noi si può fare a proposito del 90% dei gruppi post-punk, soprattutto quelli più centrati sull’elettronica (e loro certo non lo erano).

Di attuale nei Joy Division c’è il dolore giovanile, un sentimento che fa sentire autentici e profondi anche quando non lo si è. All’epoca si diceva che fossero i Doors dieci anni dopo ed il paragone ci sta tutto. Scriveremmo per un mese di fila di Unknown Pleasures, di Closer, dei mille richiami letterari (Conrad e Ballard su tutti), ma dobbiamo tornare alla pesantezza della vita. I Joy Division l’hanno resa arte, questa pesantezza, ma non l’hanno spazzata via.

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