Made in Italy, nascita di Armani e delle marchette

5 Giugno 2020 di Stefano Olivari

Made in Italy, la serie che abbiamo da poco finito di vedere su Amazon Prime Video e che in futuro sarà trasmessa da Canale 5, è più che guardabile ma è anche una grande occasione persa. La nascita della moda italiana come industria, fra Armani, Missoni, Versace, Valentino, la Milano anni Settanta, il terrorismo, il giornalismo, i legami fra aziende e media: da questi buoni ingredienti è venuta fuori la solita fiction da prima serata di Rai Uno o, appunto, di Canale 5, piena di macchiette e di dialoghi di medietà imbarazzante anche per il telespettatore medio.

Il centro dell’azione è una rivista femminile di moda, Appeal, diretta da Armando Frattini (Giuseppe Cederna) e con inviata di punta Rita Pasini (Margherita Buy), fra le altre cose madre di un giovane aspirante terrorista, rivista che ovviamente vive di marchette ma si trova ad accompagnare l’ascesa quasi contemporanea di una generazione clamorosa di stilisti, da Armani (Raoul Bova) a Versace, da Missoni a Fiorucci (quello raccontato meglio) a tutti gli altri. Stilisti che fino a quel momento, siamo nel 1974, puntavano più sui vestiti che sul vendere un’immagine, un mondo e in definitiva sé stessi.

Protagonista è la giovane giornalista in carriera Greta Ferro (Irene Mastrangelo) insieme all’amica Monica Massimiello (Fiammetta Cicogna) ed è chiara all’inizio l’ispirazione, per non dire altro, tratta da Il diavolo veste Prada. Solo che la Buy al contrario di Meryl Streep smette subito di fare la stronza mentre il paragone (come personaggi) Mastrangelo-Anne Hathaway regge qualche puntata in più. Uno spunto perso nel nome del buonismo.

La trama non aveva nemmeno bisogno di essere consistente, da tanto che era il materiale a disposizione. Le parti ideologicamente migliori sono quelle involontarie, cioè la spiegazione del marchettificio nascosto dietro l’espressione ‘fare sistema’ che viene usata non a caso anche in altri ambiti. I giornalisti come piazzisti del prodotto che raccontano, sia esso un vestito, un partito politico o una squadra di calcio. Questo non significa che si debba criticare Armani per partito preso, anzi noi per primi lo consideriamo un genio ed un italiano nel senso migliore dell’espressione, ma almeno non dire che qualunque inserzionista sia il futuro Armani.

Made in Italy si lascia comunque guardare bene e le 8 puntate della prima stagione sono volate via, perché quasi tutti gli attori (in particolare la Buy, ma anche la Cicogna non è male, e poi Cederna che è quasi commovente, sia pure con il doping del cane) sono bravi e si spera sempre in un guizzo della storia. Noi automobilisti trumpiani poi ci commuoviamo quando vediamo parcheggiare praticamente sotto il Duomo, cosa che abbiamo davvero fatto (ai nostri tempi era legale) prima dell’infighettimento ciclo-pedonale, in modo che l’influencer norvegese o lucano da settimana della moda possano prenotare con una app il loro hoverboard (e adesso che non verranno più?). Però la fiction italiana crolla sempre sui dialoghi, sulle sottostorie, sulle caratterizzazioni (imbarazzanti quelle di sindacalisti e omosessuali, per non dire dei fotografi scoperecci), soprattutto sui dettagli.

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