Love and Rain, la fedeltà di Savage

22 Maggio 2020 di Stefano Olivari

Love and Rain, il secondo album di Savage, nome d’arte di Roberto Zanetti, uscito lo scorso febbraio, è bellissimo e qualche giorno fa ne è stato tratto un secondo singolo, Where is freedom, andato subito nelle prime dieci della classifica dance di iTunes. La notizia non è però questa, ma che un cantante molto noto nella musica italiana anni Ottanta (basterebbe dire Dont’ cry tonight e Only you, il secondo disco da noi letteralmente consumato) abbia fatto uscire soltanto due album. Con lui abbiamo parlato di questo e di altro, interessati a ciò che ha da dire un uomo che conosce l’industria musicale in ogni aspetto.

Signor Zanetti, oltre 40 anni di carriera ma come Savage soltanto due album: perché?

Perché il primo fra composizione, registrazione, promozione e tournée mi prese tre anni. Poi feci qualche singolo e alla fine degli anni Ottanta ebbi subito successo come produttore. Come autore e discografico avrei toccato vari generi, ma come cantante non volevo cambiare, non aveva senso, e ho preferito rimanere fedele a me stesso. Non è che cantassi le vecchie canzoni, avevo proprio smesso. Fino a quando nel 2005 mi hanno invitato ad un festival, in Russia, che riproponeva successi anni Ottanta, e da lì è ripartita la mia attività come cantante, in Italia e all’estero, dalla Polonia agli Stati Uniti. E la domanda dei fan era sempre la stessa: quando fai qualcosa di nuovo? Ecco, Love and Rain è qualcosa di nuovo. Ovviamente nello stile anni Ottanta e quindi nel mio stile.

Ascoltando Love and Rain, tutto di inediti tranne Only you rivisitata in versione sinfonica, si ha una sensazione strana: canzoni che sembrano scritte negli anni Ottanta, con anche la strumentazione dell’epoca, ma che appartengono al presente. Perché questa musica piace anche ai più giovani, immuni rispetto all’effetto nostalgia?

Come produttore ho spesso inseguito le mode, o comunque ciò che pensavo potesse avere successo in un dato momento. Sono stato ad esempio fra i primi a portare la musica house in Italia e con Please don’t go ho inventato la covermania in chiave dance. Ma per Love and Rain sono rimasto fedele a me stesso e ai miei fan. Tutte le canzoni sono state composte al pianoforte, come 40 anni fa, e penso che si senta. Forse i giovani, abituati ad altra musica, lo sentono ancora di più.

Lei come Savage è immediatamente associato ai successi dell’italodisco…

Mi collocherei nell’italodisco nella sua parte per così dire più raffinata perché ero un musicista, influenzato da Talk Talk, Yazoo e Human League, e non un deejay. Fra l’altro i miei ritmi erano più lenti rispetto all’italodisco media.

Come produttore ed autore lei ha collaborato con tanti artisti: Zucchero, Alexia, Ice Mc, Corona… Mai stato invidioso del loro successo grazie alle idee di Roberto Zanetti?

Mai, anzi è vero il contrario. Una soddisfazione immensa vedere il successo di artisti che seguivo in ogni loro aspetto, dalla composizione alle produzione. Con alcuni, come Zucchero, ho lavorato tanto, altri li sento addirittura come mie creature: Alexia, Double U, Ice Mc… La mia soddisfazione era nel fatto che producevo musica moderna, adeguata ai tempi che cambiavano, esprimendomi attraverso di loro.

Scrivere sempre in inglese è stata una scelta o una necessità commerciale?

Una cosa naturale, perché non ho mai ascoltato musica italiana e quindi il problema non si è mai posto. Ho fatto un’eccezione con Zucchero, ma perché i testi li ha scritti lui, oltre ad avere Zucchero una sensibilità internazionale. Le mie canzoni sono quindi quasi sempre state in inglese: infatti mai ne ho mandata una al Festival di Sanremo, nemmeno per provare. Semplicemente quello non è il mio mondo.

Perché la musica italiana, al di là del discorso linguistico, ha poco successo all’estero? Con qualche eccezione, come appunto la dance…

È un problema soprattutto di marketing. La dance infatti si promuove da sola, grazie ai singoli deejay, mentre altri tipi di musica hanno bisogno di investimenti in promozione che una major fa di solito per la musica angloamericana, che ha mercato in tutto il mondo. Le stesse major, nelle loro filiali italiane, anche in Italia tendono a privilegiare artisti inglesi e americani. Quanto alle etichette più piccole, non hanno la forza per imporsi all’estero. Così può capitare il foneomeno inverso, cioè che a volte siano i successi del cantante a trascinare la casa discografica a fare una vera promozione internazionale: è stato così per Ramazzotti, Pausini e pochi altri. La dance ha invece altre regole ed è per questo che noi italiani siamo riusciti ad imporci all’estero, negli anni Ottanta ma anche in epoche recenti.

Il discorso sull’industria musicale porta diritti ad un’altra domanda. Si può nel 2020 vivere di musica? Visto che è facilissimo produrla, copiarla, ascoltarla gratis…

Vivere di musica registrata è impossibile, tranne che per quei pochi che fanno milioni di streaming. Sopravvive solo chi ha una buona attività live. Per i ragazzi è quindi più dura oggi rispetto agli anni Ottanta, mentre per le vecchie glorie è in proporzione più facile.

I talent show hanno salvato o affossato definitivamente la musica?

Né una cosa né l’altra, fra l’altro i talent mi piacciono. Vedo nei partecipanti tanta qualità e preparazione, a livelli che trent’anni fa in media ci sognavamo. Il problema è che questi ragazzi non durano e si ritorna all’industria discografica: firmano un contratto per 3 album, magari non glieli fanno fare, si perdono per strada, e avanti quelli della nuova edizione del talent.

Domanda al produttore discografico, con la sua DWA, Zanetti: quale musica funzionerà commercialmente nel prossimo futuro?

La moda degli ultimi anni è che non ci sono mode, quindi funziona tutto e niente. I generi sono mescolati e le influenze del passato evidenti: stavo ascoltando prima Blinding Lights, di The Weeknd, mi sembra un pezzo degli A-ha. E la stessa Billie Eilish, il fenomeno degli ultimi tempi, ha chiaramente lavorato su schemi anni Ottanta caricando l’aspetto dark.

Tornando a Love and Rain, che cosa si aspettava e si aspetta da questo disco? Visto che abbandonare il revival per gli inediti è sempre un rischio…

È un disco per me e i miei fan, che a quanto mi scrivono sono molto contenti. Qualcuno addirittura dice che è un capolavoro. Un mio fan australiano mi ha mandato un video di se stesso, che ogni giorno in auto canta le canzoni dell’ultimo album di Savage. Viviamo per queste soddisfazioni.

Perché gli anni Ottanta e la loro musica continuano a piacere così tanto anche al di fuori della nostalgia?

Prima di tutto per le melodie struggenti, ma basterebbe anche solo dire melodie. E poi per i testi semplici, ma con frasi di grande impatto che rimangono in testa. Inoltre per l’equilibrio fra voce e musica, a prescindere dal genere. Nelle produzioni di oggi c’è una sorta di muro sonoro, con centinaia di suoni è logico che la voce scompaia. E a mio parere se la voce ha poco peso la canzone non esiste. L’esempio più clamoroso, in positivo, è Battisti: voce e musica. In tutt’altri generi anche io ho sempre puntato sulla melodia, come ad esempio anche in The Rhythm of the night di cui sono stato editore. Quando c’è la melodia puoi fare tutto, figurarsi che The Rhythm of the night, al di là della versione dei Bastille, l’ho anche sentita di recente in una pubblicità di Mc Donald’s, in versione soul. Nello stesso rap l’alternanza fra rap e cantato è fondamentale per il successo: invece troppo spesso nel rap e nella trap si pensa che la base sia il turpiloquio. Di certo negli anni Ottanta, in generi anche molto diversi fra di loro, non si poteva prescindere dall’equilibrio fra voce e musica: forse per questo le canzoni che avevano successo allora ce l’hanno anche oggi, in un mondo molto diverso.

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