Gigi Simoni e Taribo

23 Maggio 2020 di Claudio De Carli

8 giugno 2003. Si vergogni, quel licenziamento nel giorno della Panchina d’oro. Non sono rimasto sorpreso da quanto è ruotato attorno a Gigi Simoni. Ho pensato che certe cose accadono ai buoni. Gli telefono per chiedergli come stia e se abbia voglia di vedermi, sabato a Livorno ha conquistato la sua settima promozione in serie A con l’Ancona: ma dai, vieni, mi fa, quando vieni? Io sono qui, fuori Pisa.

Pisa è una di quelle trasferte che ti stracciano. A essere onesti in Toscana, esclusa Firenze, sono le più massacranti: parlo di Empoli, Livorno, Siena, Pistoia, casino con i treni, ricordo anche qualche pullman dalla stazione all’albergo, a volte anche direttamente allo stadio senza neppure un panino da masticare perché se vai e torni in giornata i tempi sono strettissimi.

Ma questa volta sono in automobile, le indicazioni di Gigi sono perfette, è una villa tipo cascina sulla sinistra, me la descrive, la individuo al volo. Parcheggio in strada, suono, Gigi mi apre, il primo a presentarsi al cancello è Taribo, un labrador grande, grosso e più nero di West, se mai fosse possibile. Glielo ha regalato Luigi Sartor quando era un cucciolo, mi fa le feste, arriva Simoni, sorrisone, stretta di mano, come va?

Entriamo, sala enorme, a volta, Gigi è in pantofole, il piccolo Leonardo e la signora Monica gli girano attorno come due trottole: come sto? Sto che non ho dormito tutta notte, mi fa lui, telefonate, telefonate e telefonate, mi ha chiamato mezza Inter, la mia, e anche il presidente Luzzara, sai com’è, e si stende sulla poltrona, mi resta poco tempo… Cioè? Cioè, quando hai 64 anni non sono più 40, l’ho detto subito al presidente Pieroni, guardi che posso fare al massimo una programmazione di due stagioni. Poi è andata che ho vinto il campionato alla prima ma è meglio non fare calcoli, questo lui lo sa.

E adesso? Adesso torno in serie A, fa lui come se si sentisse rassegnato, torno e già mi immagino la standing ovation a San Siro quando ci farò un salto in campionato con l’Ancona. Quando ci sono tornato con il Piacenza è stato uno spettacolo, sessantamila in piedi ad applaudire. Loro avevano capito, io no, ancora adesso, ma non importa e non ho mai chiesto spiegazioni.

Non so cosa rispondergli, sulla parete c’è una foto gigantesca di Taribo che palleggia a quattro zampe con Ronaldo ad Appiano Gentile: sono due facce della stessa medaglia, mi fa Gigi, e sprofonda ancora di più nella sua poltrona. Moratti voleva il bel gioco, a me dicevano che avevo un solo schema, palla a Pagliuca e rinvio per Ronaldo. Ronie era un bambino meraviglioso, io ho avuto quello vero, quello che ti faceva vincere e abbiamo vinto. Alla squadra avevo detto che per me erano tutti uguali tranne uno, Ronie ai quei tempi poteva fare quello che voleva, ma non credo che si mise contro di me. Un giorno mi chiama Simeone e mi fa: Gigi, con il carisma che ha Ronaldo avrebbe potuto impedire il tuo licenziamento, bastava una parola e avrebbe convinto Moratti, lo speravamo tutti. Forse il Cholo aveva ragione, mi aveva già chiamato e mi aveva chiesto cosa potesse fare la squadra per farmi riconfermare. West mi aveva detto che voleva venire con me a Piacenza. Sei sempre fuori dal mondo, gli ho risposto, il Piacenza è l’unica squadra di serie A che gioca senza stranieri. C’è rimasto male e mi ha richiamato per chiedermi di portarlo ad Ancona ma qui con il costo del suo cartellino facciamo mezza squadra. Però non credo che Ronaldo si sia mai messo di traverso.

Bene, gli dico, questo è il passato, hai rivinto. Con l’Ancona è tutto un altro mondo, mi fa, tornano alla mente le mie prime stagioni in panchina. A Milano se non vinci è finita e passi le settimane a sentire il nome del tuo successore. Devi difenderti da tutti e se uno della rosa lo metti in panchina come sente che l’allenatore è in pericolo diventa un nemico in più, spera solo che ti esonerino. No, non parlo di Ganz, lui era uno che se non giocava diventava matto, non si sentiva inferiore neppure a Ronaldo. Mi diceva che non capiva perché Ronie era sempre titolare e lui no. Poi quando lo mettevi dava l’anima. Ma è normale, il calcio alla fine è questo, io però ho sempre giustificato tutti, anche quelli che non mi andavano. Tanti? Ne bastano pochi, basta un palo o un rigore non dato e i tuoi detrattori ti fucilano.

C’entrano qualcosa la Juventus e Ceccarini? Sì, certo, mi risponde convinto, quel giorno gli ho detto che doveva vergognarsi. Una partita che ha segnato il campionato e un’infinità di altre cose, quella squadra è implosa, quei novanta minuti hanno condizionato tutto, io penso che abbiano condizionato perfino il lavoro di Lucescu e il suo esonero, erano troppo legati a me. Quel giorno che West gli ha tirato la maglia addosso ho capito che eravamo rimasti una squadra.

Gigi mi chiede se bevo qualcosa, arriva la signora con il piccolo e Taribo. Ha l’Inter sotto la pelle: licenziato il giorno che ho ricevuto la Panchina d’oro dai colleghi a Coverciano, ma con Moratti non ho mai avuto una discussione, siamo rimasti amici e basta. Cosa ricordo? Ricordo che ho pianto. 

Estratto di Aspettando Moratti – Vent’anni di Inter e giornalismo, di Claudio De Carli (Indiscreto, 2017). In vendita a 17,95 euro su Amazon (a 9,99 la versione eBook) e a 18,90 in libreria.

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