Smart working di classe

15 Aprile 2020 di Indiscreto

I tanti discorsi sulla bellezza dello smart working, oltre che sulla sua necessità in questo periodo, di solito evitano di sottolineare come questa opportunità sia riservata soltanto ad alcuni ceti sociali: per la natura dei lavori, come è ovvio (un muratore non può lavorare da casa propria come un giornalista), ma anche, in caso di lavori comparabili, per la reale vivibilità delle abitazioni. Parafrasando Catalano, visto che facciamo riferimenti solo per over 40: meglio lavorare in compagnia del gatto in una casa di 120 metri quadrati che in cinque umani in una da 70, mentre il bambino piange e la nonna fa il sugo.

Un’inchiesta del New York Times, fatta attraverso le statistiche su 15 milioni di device, ha dimostrato che nelle zone più ricche lo ‘Stay home’ è stato più facile e più immediato che nelle altre, e non c’è bisogno di spiegare perché. Chi ha case migliori è nella media più incentivato a rimanere a casa senza considerarla una prigione, da qui questa sorta di autoquarantena di classe: mentre la suburra va fuori di testa e corre a grigliare sfidando vigili e trasmissioni televisive, i fighetti (dobbiamo dire noi fighetti) stanno a casa a dare lezioni di senso civico in attesa di rimettere l’auto in doppia fila con il motore acceso.

È un discorso che prescinde dall’emergenza attuale, perché in un periodo di tempo limitato e con obbiettivi chiari (evitare il collasso del sistema sanitario, per dirne uno) le misure coercitive diventano accettabili da quasi tutti. Ci riferiamo ai prossimi mesi, se non ai prossimi anni, quando bisognerà convivere sia con la razionale paura del contagio sia con l’irrazionale ossessione di evitare qualsiasi posto frequentato da esseri umani. Dal fondo del bar ci dicono che i ricchi di solito se la cavano meglio dei poveri, ma anche che un conflitto di classe non è più fantapolitica. Un governo autoritario, senza problemi di elezioni o roba simile, è il più indicato per gestirlo. Insomma, #andràtuttobene, ma per noi.

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