I polpacci di Vialli

14 Aprile 2020 di Oscar Eleni

Oscar Eleni sul ponte di Charleston urlando cose ovvie: sono dalla parte di Guccini quando dice che dopo non saremo migliori, sono dalla parte di Vialli quando a Crosetti ricorda che nelle malattie e catastrofi si diventa quello che si è e ci si dovrebbe ribellare ai tagli della sanità, ai veleni che uccidono. Senti Gianluca e pensi a Mantovani, a quella Sampdoria, a Boskov come Tanjevic, a Mancini e allora ecco che interviene Gigi Riva quando lo benedice  come pope per la Nazionale: “Il giocatore, l’uomo va in panne e allora il dirigente serve proprio a curare questo malanno oscuro”. Magari ci pensassero quelli che mettono i soldi e pensano che basti.

Non saremo migliori mai se gli stessi che si fingono solidali oggi, cominciando dalle banche, da chi presta e chi ti vorrebbe aiutare staccandoti il braccio dopo aver accarezzato il dito, torneranno all’eurocinismo che vediamo. Se dove le bare vengono nascoste i “dirigenti” si spartiscono premi, utili. Nei giorni della clausura ti tormentano più la confusione del silenzio, le pubblicità della solitudine, i finti esperti. Faticoso essere ottimisti sul domani, comprendendo che il dopo sarà voragine.

Resta lo stupore nel vedere le trasmissioni registrate, quelle dove ci dicono come eravamo davvero. Come cambiare se questo mondo ce lo siamo fatto proprio ad immagine e somiglianza, dove ci si ritrova bene in Gomorra e troppo distanti da La vita è meravigliosa. Come non capire chi vuol tornare in campo?  Chi ha bisogno dei circences e dei cantanti, degli attori? La speranza è non i padroni del nuovo Colosseo globale, quelli che dovrebbero ascoltare i loro campioni, valutarne  l’umanità, la voglia di essere squadra e non divi con penne di struzzo.

In queste giornate dove davvero fai fatica a capire se certe scelte hanno un senso, se si può parlare di centrocampo e di giocatori al mercato,  anche se  si deve comunque vendere perché in edicola si può ancora andare, capita a chi per anni  ha scritto e lavorato nello sport di pentirsi, di invidiare.Ci è successo sentendo i tifosi della Virtus Bologna, gloria del basket, che lo scudetto di carta non può interessare.

Siamo volati indietro nel tempo, ai giorni in Gazzetta, quando Franco Mentana, padre di Enrico dirà qualcuno, ma per noi compagno di viaggio stupendo, tornava da Cagliari dove il maresciallo Zanetti lo aveva mandato come vedetta fissa nel regno di Arrica e Scopigno, e raccontava  di quella squadra, non soltanto di Gigi Riva. Un modo di vedere, fare, che ci manca. Uomini e topi di oggi, uomini e leoni di ieri. Invidia nel sentire storie di sport raccontate come si dovrebbe fare sempre. Cercando soltanto l’uomo dentro il campione, provando a capire perché. Quello era un calcio dove le grandi accettavano il prodigio dei piccoli, dove Milano, Torino e Roma sapevano sacrificare la loro ansia da prestazione per lasciare alla gente il tempo di sognare, come con la Fiorentina o il Bologna di Bernardini, la Samp di Boskov, il Verona di Bagnoli, la Lazio di Maestrelli.

Nostalgia della gente che incontravi e sempre Crosetti con le sue “Tracce”, una grande crociata perché ciascuno sia qualcuno e nessuno si senta nessuno, ci ha ricordato Ezio Giroli, l’uomo che sussurrava ai campioni del basket pesarese nell’era Scavolini, massaggiandoli, dipingendoli come erano davvero. Ci mancano quegli incontri, quei viaggi. Sì, certo, campioni, grandi squadre, allenatori che hanno lasciato tracce importanti, ma le anime le scoprivi bevendo un caffè con Memo Zanella o Tresoldi al Milan, con la dinastia interista dei Della Casa. Nel basket Cappellini a Varese era la miniera, ma Galleani era quello capace di darti la vera immagine dei suoi campioni, così come Cattaneo a Milano, come Nazareno Rocchetti nell’atletica perché con lui, ad esempio, scoprivi  davvero Mennea, la Simeoni, Gelindo Bordin e persino il professor Gigliotti.

Oggi ti tengono il più lontano possibile, non ci sono veglie in comune, nei viaggi, negli alberghi. Si deve andare dietro a chi fabbrica l’immagine. Un peccato e ci dispiace davvero aver perduto gli anni dove avremmo scoperto quello che l’isolamento ci propone come verità del campione uomo: sì, siamo rimasti colpiti dal Belinelli raccontato dal De Ponti su “Sette”, dal Melli e dal Datome che trovi cercando i loro siti d’evasione, persino dal Gallinari lontano.

Il basket è una miniera dove spesso scoppia il grisù e lo capisci vedendo le troppe facce senza nome che ancora oggi gironzolano nel piccolo giardino. Gente che ancora si chiede con chi ce l’hai  se per loro diventi permaloso  perché eviti il disagio di battere le mani quando passano i loro “campioni”. Se li tengano, ne hanno il diritto, ma perché mai elogiando uno si devono screditare altri che sul campo hanno fatto come il loro tesorino? Non abbiamo detto anche meglio perché questi si arrabbiano. Le vittorie dei loro sono migliori  dei successi degli altri. Sempre, a prescindere. Se questo porta sollievo hanno ragione loro e  nella tragedia si è come siamo davvero come dice Vialli che una volta in Nazionale ci stordì con una risposta disarmante quando, incuriositi e per rompere il ghiaccio, oltre alle palle, chiedemmo se come attaccante non rischiava troppo tenendo il calzettone abbassato: “Ho i polpacci troppo grossi e con il calzettone si vedrebbe.”

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