Intervista a Massimo Fini sul calcio

28 Gennaio 2020 di Stefano Olivari

Ieri bellissima serata con Massimo Fini, un’ora e mezzo con domande nostre e di un pubblico molto preparato. Il pretesto dell’incontro era Storia reazionaria del calcio, libro scritto con Giancarlo Padovan, poi l’occasione era troppo invitante per non chiedere altro ad un giornalista che leggiamo con passione fin dai tempi dell’Europeo. L’Europeo! Ma chi sotto i 50 anni può capire i nostri riferimenti? Considerazione non a caso nostalgica, anche se non reazionaria. Di seguito alcune domande e risposte con l’autore dell’imperdibile Ragazzo – Storia di una vecchiaia.

Lei indica nell’arrivo di Berlusconi nel calcio, anno 1986, l’inizio della perdita di identità di questo mondo, sempre più a misura di clienti e non di tifosi. Non pensa che certi cambiamenti del calcio a livello mondiale sarebbero avvenuti anche senza il Milan di Berlusconi?

Il problema non è il Milan ma la berlusconizzazione di tutto il calcio italiano, che ha perso il suo aspetto di sacralità per avvicinarsi come filosofia agli sport professionistici americani. I cambiamenti sono portati avanti da persone, e Berlusconi da quel famoso giorno all’Arena è stato la persona che in Italia ha cambiato un linguaggio e un atteggiamento verso il calcio, al di là anche degli aspetti televisivi. A qualcuno questi cambiamenti piacciono, a me no.

La nascita del suo tifo per il Torino è casuale, ma lei si immaginerebbe tifoso di un’altra squadra?

Da piccolo desideravo tifare per la Juventus, perché mia sorella era appunto tifosa della Juventus e io la imitavo. Poi lei si arrabbiò, dicendo che non dovevo fare tutto ciò che faceva lei ed ebbi la bella idea di scegliere il Torino, perché nella mia testa di bambino sembrava la squadra più vicina alla Juventus di mia sorella, essendo della stessa città. E granata sono rimasto, senza mai chiedermi perché. Di sicuro non mi è mai convenuto, anche se i tifosi dei grandi club non possono capire la gioia di certi risultati strappati con i denti…

Urbano Cairo meglio come presidente del Torino o come editore?

Come editore ha risanato un’azienda che stava fallendo per colpe dei suoi predecessori. Come presidente del Torino mi fa venire in mente soprattutto le sue cessioni, da Immobile a Benassi…

Come segue Massimo Fini le partite? Ne guarderà anche in televisione…

Cercando di preservare quell’aspetto di sacralità di cui parlavo prima. Da solo o insieme a mio figlio. Di sicuro senza fare conversazione, mangiare, parlare, alzarmi, eccetera… Per me inconcepibile. Il calcio non è uno spettacolo ma un passione, vale anche per le partite senza il Torino in campo. Non potrei mai guardare una partita di calcio insieme a una donna, fosse anche la mia fidanzata, ed infatti non sono mai stato allo stadio con una donna.

Da milanese sarà andato tante volte anche a San Siro: cosa ne pensa del suo possibile abbattimento per fare spazio al nuovo stadio di Inter e Milan?

Ne penso il peggio possibile. San Siro era già stato rovinato da Italia ’90 ma anche così come’è adesso dovrebbe essere considerato monumento nazionale. Non è una costruzione come tante altre, ma un posto a cui generazioni di persone hanno consacrato una parte importante della loro vita.

Nel libro si parla anche di calcio femminile, ma forse è una parte scritta da Padovan…

Giancarlo Padovan è un vero tecnico, oltre che un giornalista che mi piaceva già prima di conoscerlo personalmente. Di partite femminili ne ho guardate anche io, le ragazze giocano anche bene… Ma non essendo il calcio solo uno sport, mi domando come possa scattare l’identificazione con una squadra femminile.

Il giornalismo sportivo oggi ha ancora un senso?

Secondo me no, nell’era in cui tutti possono guardare tutto rimane poco da dire o da spiegare. Mi interessano i pareri di alcuni opinionisti, ad esempio Capello, ma nella maggior parte dei casi sento cose che potrebbe dire chiunque.

E gli altri sport da lei amati, pugilato e ciclismo, hanno ancora un senso?

Il pugilato sicuramente no, nessuno da noi è più così povero da farsi prendere a pugni per pochi soldi. L’ho molto amato e anche seguito a bordoring insieme a Maurizio Mosca, un grande esperto. Il ciclismo è invece ancora uno sport di successo, anche se in Italia un po’ meno. Ma potendo vedere tutto ha perso la magia evocativa di certi nomi che vedevi al massimo per dieci secondi e poi ti immaginavi tutto l’anno: io impazzivo per Rik van Steenbergen.

Parlando di giornalismo in generale, in questo e in altri suoi libri lei rimpiange il periodo all’Indipendente di Feltri. Eppure durò abbastanza poco…

Era un periodo particolarissimo, quello di Mani Pulite, e noi eravamo davvero indipendenti, anche perché vendevamo tantissimo. Non condividevo l’impostazione colpevolista-forcaiola di Feltri ma ero libero di seguire la mia strada, poi lui accettò le offerte di Berlusconi che per andare al Giornale gli offriva il quadruplo e quella magia finì. Il Feltri di adesso non saprei giudicarlo: o non si rende conto delle brutte figure che fa oppure le fa per il gusto del palcoscenico.

Lei che ha scritto tantissimo dei socialisti, da Craxi a Martelli, come valuta l’attuale rivalutazione di Craxi, a vent’anni dalla morte, fra film e testimonianze varie?

Il Craxi finale è indifendibile, anche con gli occhi di oggi: intendo il sistema di potere di cui faceva parte il PSI, non certo il socialismo. Se il suo famoso discorso sul sistema di finanziamento dei partiti lo avesse fatto subito, appena dopo l’arresto di Mario Chiesa, o meglio ancora prima, sarebbe stato almeno credibile.

Chiudiamo con il calcio: le piace ancora?

A me che sono tifoso sì, ma a livello di pratica le cose stanno cambiando. Noi bambini nel dopoguerra, sono nato nel 1943, avevamo soltanto il calcio e tanto tempo libero. Giocare nei cortili o nei prati, prima ancora che in modo organizzato, era normale. Ma il calcio è degenerato a livello anche giovanile, con i genitori come primi colpevoli, per questo vedo la crescita di sport che almeno in teoria hanno un sistema etico diverso, come il rugby e la pallavolo. Quando mio figlio a 16 anni si rifiutò di andare a un provino con l’Inter dicendo che il calcio deve rimanere un gioco, da un lato sono stato orgoglioso di un figlio così saggio e dall’altro è venuto fuori quel ragazzino degli Cinquanta che per il calcio avrebbe fatto tutto. Ecco, penso che il calcio possa diventare sempre più spettacolare, ma non è uno spettacolo. È forse l’unica cosa al mondo per cui proviamo sentimenti e soffriamo, senza aspettarci reciprocità.

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