L’anno di Western Stars

4 Gennaio 2020 di Andrea Ferrari

Si sono appena conclusi un anno e un decennio in musica, inevitabili quindi bilanci e classifiche riferiti al 2019. Va detto che questi blocchi di tempo ci apparivano più definiti nel secolo scorso mentre questo millennio appare dal punto di vista musicale un unico mappazzone, per dirla con Barbieri, con una demarcazione labile tra le due decadi.

Alcune considerazioni sparse. Western Stars di Springsteen è il nostro disco del 2019 per un motivo banale e forse fuori moda: è pieno di belle canzoni. Lo reputiamo il lavoro migliore del Boss degli ultimi trent’anni, un album quasi d’altri tempi: una bella copertina e un concept a legare brani che si fanno ascoltare senza fare skip in modo compulsivo.

Il conformismo della critica ha premiato mattoni come Ghosteen di Nick Cave e Norman Fucking Rockwell di Lana Del Rey, che solitamente invece apprezziamo molto. Scommetteremmo la casa che questi critici entusiasti fra qualche anno non se li andranno a riascoltare per intero neanche sotto tortura, a meno che non lo facciano per combattere l’insonnia.

Una forza trainante come il Regno Unito è quasi sparita. Ci piange il cuore a dirlo, ma sembra davvero finita un’era. L’ultima loro next big thing nel rock, gli Arctic Monkeys, è ormai in giro da quasi quindici anni. Scarso è anche il loro hip-hop così come penose sono certe bolle mediatiche tipo FKA Twigs venduta come la nuova Kate Bush….

Sul fronte italiano ci sono piaciuti Magmamemoria di Levante, il cantatutorap dell’ottimo Dutch Nazari e di Franco 126, la sfrontatezza di Paprika di Myss Keta e Beltempo, il solido esordio di Apice, vincitore dell’ultimo Premio De André.

Gli uomini si stanno sempre più eclissando dal panorama pop-rock, ormai dominato dalle donne nelle classifiche sia commerciali sia di critica. Proviamo ad azzardare alcune spiegazioni del fenomeno, in sintesi. Intanto si tratta di generi in cui molto, se non tutto, è stato già detto. I mostri sacri del Novecento sono una pietra di paragone molto tosta, a meno di non avere la sfrontatezza da manierista-copione à la Greta Van Fleet. In secondo luogo per un giovane d’oggi è più accattivante e facile fare hip-hop, anche grazie alla tecnologia a disposizione, o casomai fare lo Zuckerberg de’ noartri provando a mettere in piedi una startup con gli amici.

I talent show hanno uniformato e abbassato anche il livello dello scouting, ci sembra che a livello mainstream i modelli dominanti siano il cantante-rapper che non si vergogna di fare il tamarro latineggiante oppure quello super impostato, non solo vocalmente, e criptogay à la Mengoni-Sam Smith. A un outsider vero come Calcutta, che non aveva nient’altro che delle buone canzoni, è stata data fiducia da una piccolissima etichetta, in un cosiddetto talent l’avrebbero scartato subito.

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