Uno Zucchero D.O.C.

8 Novembre 2019 di Paolo Morati

Lo ammettiamo, non siamo molto obiettivi quando scriviamo del buon vecchio Adelmo Fornaciari in arte Zucchero, detto Sugar, che ha appena pubblicato un nuovo album intitolato D.O.C. Avendolo seguito fin dal 1982 ci riesce infatti difficile avvicinarlo mettendo da parte quelle orecchie di chi ormai da quasi 40 anni lo ascolta (una mania risalente al 1982 quando usciva il suo primo album così diverso da quelli successivi, mentre non se lo filava nessuno), ancor più in un momento storico musicale in cui facciamo fatica a trovare quel guizzo che ci rende sereni.

Sarà la nostalgia degli anni delle scoperte, sarà che attorno alle sue canzoni sono ruotati diversi episodi importanti della nostra vita, sarà che abbiamo goduto dei suoi alti così come sofferto dei suoi bassi, ma anche questa volta ci siamo accostati al nuovo album di Zucchero con la certezza che avremmo fatto fatica a non farcelo piacere. E di fatto così è stato.

Zucchero è di nuovo qui con in testa un nuovo cappello, e noi con lui, per offrire qualcosa di ‘origine controllata’, per uscire da una nuvola di appiattimento verso il basso e di modelli musicali produttivi e commerciali che in alcuni casi hanno sostanzialmente ribaltato le buone abitudini che vigevano quando sul giradischi facevamo andare fino all’esaurimento album come Oro Incenso & Birra (festeggiato proprio quest’anno), uscito dopo Blue’s, o ancor prima Rispetto, e poi l’incompreso e duro Miserere, il giocondo Spirito DiVino e così via fino a Black Cat.

Ma veniamo a D.O.C, già anticipato un mesetto fa dal singolo Freedom nel cui video, e non ci sembra un caso, Zucchero è solo la voce, quasi a non voler disturbare una storia raffigurata non solo in musica e parole ma anche in immagini, che parla di libertà (“seguo lei, casomai, ma che bel suono sei, libertà ti ignorai, oggi no non lo farei”). Una canzone costruita con l’aiuto di nomi attuali come Rag’n’Bone Man, e dal quale emerge subito la voglia di contaminare lo stile Sugar, inconfondibile e consolidato con quanto gira intorno, pescando passato e presente per portarli nel futuro. Con quella cura del dettaglio maniacale, come l’organo elettrico Farfisa, che rende prezioso il brano di lancio del disco.

Ecco appunto, D.O.C, prodotto con Don Was e il contributo di Max Marcolini, insieme a personaggi più ‘giovani’ come Nicolas Rebscher e Joel Humlen, appare subito un vero disco (termine tristemente in disuso) da ascoltare più e più volte per coglierne i dettagli, canzoni che arrivano subito e altre che vanno macinate in mente a lungo fin da Spirito nel buio, un gospel moderno (“vorrei vedere tutto il mondo in festa che accende spirito nel buio”), cori ad arricchire, e poi subito un veloce d’annata, Soul Mama, intrecci di parole (“che bella cera tirata a pavimento, ti vedo in gamba ma dal ginocchio in giù”), quel bip bip che batte in sottofondo, il dettaglio che fa la differenza.

Il primo lento è una sorpresa, Cose che già sai con la svedese Frida Saudemo (anche in versione inglese), cantata all’unisono (“non dimenticarti di noi, se per darti il cielo cascai”), le voci sovrapposte, un crescendo, a spegnere poi sul brano che appare il più nero del lotto. Testa o croce (con la collaborazione di Davide Van de Sfroos), che diventa una canzone tipicamente zuccheriana ossia capace di aprirsi improvvisamente come una finestra sul sole (“e sospesi per aria, recisi via come fiori… come piume nell’aria, portati via siamo soli”) per un sound che poi tira e stira le corde.

A seguire la già citata Freedom, e poi un brano, Vittime del Cool, che fa una sottile critica al mondo dell’apparenza (“ormai che tristemente nessuno è quello che è”), con dietro nomi contemporanei come i britannici Francis Anthony “Eg” White e Mo Jamil Adeniran. Più lineare è Sarebbe questo il mondo, nel pianoforte che introduce e chiude, e l’esplosione di cori (“sarebbe questo il mondo che sognavo da bambino quel giallo d’oro immenso del mattino”), per arrivare a un altro picco, La canzone che se ne va, caratterizzato da uno splendido testo scritto con Pasquale Panella (“come un diamante fatto di sole prima di luce era carbone”), e la musica di Daniel Vuletic. Si torna a far andare il piedino con Badaboom (Belpaese), poderoso nell’andata e ritorno del ritmo e nel testo (“ruba dai che il tempo è buono che c’è di strano se non ti perdono”), per planare su Tempo al tempo, la nuova collaborazione di Francesco De Gregori che fa riflettere e ragionare (“sono nuovo già passato vivo altrove sempre qua… e se è vero che ci sei così in cielo come da noi sai che ti sto cercando, tempo al tempo”), e la degna chiusura, come da buona abitudine in un’atmosfera quieta, pur se Nella tempesta (“e mi trafigge gli occhi la luce che mi resta di te ovunque sei nella tempesta)”.

Con testi sempre più profondi e intimi, le contaminazioni felici, e quella voce unica (in un prossimo disco potrebbe bastare anche solo quella e quattro strumenti in croce), Zucchero pubblicando D.O.C. conferma in “tempi sospettosi” di giocare ancora in un’altra categoria, proponendo un lavoro che cambia di nuovo la partita, irripetibile senza ripetersi, contemporaneo e antico, dimostrando che non tutto è perduto finché i vecchi leoni continueranno a ruggire offrendoci una boccata di aria fresca nonostante il tempo che passa. E di cui l’Adelmo da Roncocesi è ben consapevole, evitando di giocare a fare il giovane che fu. Il resto lo lascia (e lo lasciamo) a tutti quelli che pensano sia sufficiente un autotune e un concatenamento di samples per fare musica. Auguri.

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