Warrior, i cinesi che parlano

14 Agosto 2019 di Indiscreto

Bruce Lee è morto giovane, a 33 anni, ed ha girato pochi film (solo quattro da protagonista), ma la sua immagine è ancora fortissima. Al punto di essere la chiave del successo di una serie televisiva dei giorni nostri, Warrior, che è nata da un suo soggetto e che abbiamo appena terminato di vedere su Sky Atlantic.

Warrior ha comunque poco a che vedere con i film di Bruce Lee e quasi niente con quel filone cinematografico kung fu che fu di grande moda negli anni Sessanta e Settanta e che era l’architrave della programmazione di alcune tivù private italiane degli albori (trama quasi fissa: il vecchio e saggio maestro che viene ucciso dai cattivi di una scuola rivale, con rapimento della figlia/nipote e vendetta a mazzate dell’allievo non più sfigato, con il minimo sindacale di dialoghi).
 
I tanti combattimenti che si vedono in Warrior riflettono più un gusto alla Tarantino, da citazionista fighetto, che una scelta di genere. La serie, creata da Jonathan Tropper (Banshee) e Justin Lin (True Detective), con la consulenza di Shannon Lee (figlia di), ha quindi ambizioni ben più alte, quasi dichiaratamente politiche. 
 
Ambientata nella San Francisco del 1870, mette in scena con grande forza il conflitto fra cittadini di un paese (in questo caso soprattutto di origine irlandese) ed immigrati (in questo caso cinesi), con argomentazioni e schemi del 2019. Il lavoro sottopagato che crea disoccupazione fra chi non vuole farsi schiavizzare, la criminalità, ghettizzazione ed autoghettizzazione, bisogno di manodopera e sovranismo.

Il protagonista, Ah Sahm, arriva dalla Cina per cercare la sorella Mai Ling, che ha dovuto sposare il boss di una tong per poterlo proteggere da un casino che aveva combinato in Cina. E subito il ragazzo, venduto a una tong rivale di quella della sorella, si trova a fare i conti con il nuovo mondo: il suo avere un nonno americano (da ricordare che Bruce Lee era originario di Hong Kong, ma arrivò in America da bambino: certo non da povero, essendo la sua famiglia relativamente benestante) gli impedisce di accettare le logiche cinesi di sottomissione e disciplina, ma per gli americani lui è un cinese con zero possibilità di uscire da Chinatown. Un po’ se la cava con la qualità di guerriero, ma le carte che ha in mano sono cattive.

Moltissimi i personaggi interessanti, su tutti la maîtresse Ah Toy, con animo rivoluzionario, così come interessante è la parte sulla politica locale e sui meccanismi del consenso. Le porcate del sindaco Blake e del suo vice Kirkwood non si contano, in un’America che non ha ancora superato gli odi della guerra di secessione e che anche fra i bianchi ha gerarchie precise.

Molti gli amori impossibili, moltissime le scene di sesso, innumerevoli i combattimenti e a volte sorprendenti i loro esiti (l’eroe non vince sempre). La serie è ben lontana dall’essere una cinesata di quelle dei nostri tempi, anzi delinea molto bene ogni carattere: gioca un po’ con le citazioni, come in un episodio quasi western ispirato a Ombre rosse, ma si lascia vedere ad ogni livello di comprensione. E finalmente in una produzione occidentale ci sono cinesi che parlano con frasi articolate.

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