Post Punk 1978-1984, gli anni dei Joy Division

9 Luglio 2019 di Indiscreto

Il tempo speso per leggere le 750 e passa pagine di Post Punk 1978-1984, libro di Simon Reynolds di recente traduzione in italiano (di Michele Piumini per Minimum Fax) ma scritto nel 2005, è tempo ben speso. A patto di partire già con proprie conoscenze, anche superficiali, sul punk e su ciò che che è accaduto dopo in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Industrial, no wave, new rock, synthpop, mutant disco, punk-funk, dark e tanti altri sottogeneri che in gran parte fanno parte della nostra amata new wave ma non coincidono esattamente con essa. Comunque sia, Reynolds è furbo nello smarcarsi subito da dispute terminologiche e a concentrarsi più sull’epoca che sulle singole correnti musicali di questo periodo d’oro della musica pop.

Un periodo paragonabile solo ad alcune stagioni degli anni Sessanta, con cui condivide un’ansia e una tensione verso il futuro che la musica non ha più conosciuto se non in nicchie sperimentali. Inconcepibile per un ragazzo di quell’epoca ascoltare dischi del passato, e a maggior ragione rimpiangere un passato nemmeno vissuto o una presunta purezza.

L’autore, uno dei giornalisti musicali più famosi del mondo, vuole quindi rendere giustizia a un periodo ignorato dagli storici musicali, che considerano quella fra il punk e il grunge, quindi 15 anni buoni, un’epoca di spazzatura commerciale e rimasticatura di vecchi schemi rock. In parte è stato così, soprattutto nella seconda parte degli Ottanta, ma il fermento di fine anni Settanta-inizio Ottanta non c’è più stato: il rimpianto per il piccolo mondo antico, da destra e da sinistra, o la ribellione senza causa sono prive di una qualsiasi idea di futuro. Che invece è appunto il tratto distintivo del post-punk, in tutte le sue diversissime incarnazioni.

Non spaventatevi se non conoscete tutti i gruppi, perché molte citazioni sono da fenomeno (nemmeno a Leeds sanno qualcosa della scena punk di Leeds, al di là del fatto che dire ‘scena’ faccia molto giornalista musicale, come ‘catena di destra’ per i cultori di Adani) che fa solo quello nella vita, ma la maggior parte dei capitoli è accessibile a un normale appassionato di musica: i PiL di John Lydon, Howard Devoto (quindi anche Buzzcocks e Magazine), Slits, Pere Ubu, Talking Heads, Cabaret Voltaire, Scritti Politti, The Human League, Gary Numan, Adam & the Ants, The Fall, Culture Club, Spandau Ballet, Madness, Cure, Duran Duran, Simple Minds, DAF, Frankie Goes to Hollywood, The Pop Group, Raincoats, solo per citare gente di cui abbiamo almeno un disco comprato all’epoca e che ha avuto successo anche da noi.

Appassionanti i collegamenti e ovviamente discutibili i giudizi: incomprensibile la sufficienza con cui Reynolds tratta gli Ultravox (per noi divinità, sia nel periodo John Foxx sia in quello Midge Ure) e soprattutto il relativo poco spazio dato ai Joy Division, che nella loro breve vita prima del suicidio di Ian Curtis nel 1980 e della svolta New Order sono stati secondo noi uno dei gruppi più influenti della musica mondiale.

In generale Post Punk 1978-1984 è un libro un po’ per iniziati, che apprezzano un punto di vista competente più della storiella che si trova su Wikipedia, ma può essere apprezzato anche da chi a malapena conosce Duran e Spandau, pieno com’è di considerazioni disseminate qua e là, come quella sul carattere fondamentalmente bianco di punk e di gran parte del post punk, o quelle sulla grande truffa del rock e della sua estetica. Su tutte quella che il grido di dolore del punk abbia trovato un’espressione compiuta, comprensibile per i posteri, soltanto nel post punk.

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