Storia reazionaria del calcio: era meglio una volta

2 Giugno 2019 di Stefano Olivari

La storia del calcio è per sua stessa natura reazionaria, ma raramente qualcuno lo ammette. Nel loro Storia reazionaria del calcio – I cambiamenti della società vissuti attraverso il mondo del pallone Massimo Fini e Giancarlo Padovan hanno voluto però dare questo titolo forte al loro viaggio nel calcio dell’ultimo mezzo secolo.

Fini nella prospettiva del tifoso legato ai propri ricordi, Padovan in quella del giornalista-allenatore. Ma perché la storia del calcio è reazionaria? Perché il tifo o anche la semplice passione si sono formati nella nostra infanzia e si sono evoluti quasi avendo una vita propria, schiacciando sempre il presente sotto il peso del passato.

Dietro gli insopportabili ‘Messi non vale mezzo Maradona’, ‘Una volta i calciatori erano più vicini alle gente’ , ‘Le partite vanno viste allo stadio’ e ‘La Champions League di oggi non vale la vecchia Coppa dei Campioni’ c’è molto di più della nostalgia dei nostri anni migliori. C’è la reale convinzione, supportata anche da analisi approfondite e magari fondate, che il momento migliore della storia del calcio sia già passato e che solo noi siamo riusciti a comprenderlo. Altro che questi giovani di oggi che passano dalla Playstation a Real-Barcellona senza comprendere la poesia di un Torino-Lecce sotto la pioggia…

Il libro non è scritto a quattro mani, ma ci sono proprio i capitoli di Fini e quelli di Padovan. Più antimoderno Fini, suo inconfondibile stile anche quando tratta altri argomenti, più tecnico Padovan, entrambi concordano sul fatto che i cambiamenti regolamentari e la televisione abbiano creato un calcio e uno spettatore diverso. Ma è evidente, anche nelle equilibrate parti di Padovan in cui ci sono storie di giornalismo sportivo molto interessanti ed istruttive, che questo sia ideologicamente un libro di Fini. Secondo lui avere spogliato il calcio degli elementi identitari e rituali ha aiutato a venderlo meglio, ma lo ha reso un prodotto come tanti altri. Di grande successo, almeno finché dura, ma come gli altri. Le partite spalmate su tre giorni, i mille orari diversi, l’informazione a ciclo continuo hanno tolto al calcio la sua sacralità, per dirla in una parola. Rimane un fantastico argomento da bar, ma sono sempre meno quelli che lo rivestono di significati extrasportivi.

In Italia la degenerazione è, secondo Fini, iniziata con il berlusconismo (che lui da sempre critica da una posizione che amiamo, molto anarchica e lontana dal progressismo radical chic) ed è proseguita con l’entrata del politicamente corretto in un mondo in cui gli uomini, per non dire i maschi, canalizzavano i loro peggiori istinti. Lo stesso calcio femminile, di cui peraltro Padovan è cultore ed allenatore (bellissimi i punti in cui l’ex direttore di Tuttosport e prima firma del Corriere della Sera spiega perché), è secondo Fini una qualcosa di inconcepibile, come la donna che si interessa di calcio. 

Il cuore del libro è ideologico, ma ad essere affascinante è la narrazione di mille episodi in qualche modo emblematici, un continuo flusso di coscienza che ci fa passare sopra anche ad alcuni riferimenti storici un po’ forzati ma che è pieno di calore: quello passatista di Fini e quello decisamente più rivolto al futuro di Padovan. Con la rivelazione di tanti eroi personali, inevitabilmente meno celebrati del dovuto (Fini ha una smodata passione per Van Nistelrooy). Libro da regalare ai nostalgici, anche a quelli di cose che non hanno mai visto né vissuto.
 
Ma il calcio di una volta, quello prima della svolta di inizio anni Novanta, era davvero meglio? La risposta giusta sta secondo noi nella sintesi fra le posizioni di Fini e Padovan. Se parliamo di sport, al limite anche di spettacolo, con in campo squadre e personaggi dei quali ci importa zero allora stravince il calcio di oggi sotto ogni profilo. Se invece la mettiamo sul piano del tifo, ma soprattutto del ruolo del calcio nelle nostre vite, meglio quello arrivato e morto a Italia ’90 e dintorni.
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