Le vacanze dei bambini impiegati

13 Giugno 2019 di Stefano Olivari

Venerdì scorso in diverse regioni d’Italia è terminato l’anno scolastico di scuola primaria (le elementari dei nostri tempi), fra poco sarà così per tutte le altre e quindi i bambini, oltre ovviamente agli insegnanti, si troveranno davanti tre mesi di riposo. Particolarmente atteso dal 34,8% di loro, cioè da chi frequenta scuole con il cosiddetto tempo pieno.

Stiamo parlando di scuole pubbliche, perché per l’istruzione di base nemmeno riusciamo a concepire una scuola diversa (quando la suorina sarà sostituita dall’imam il concetto diventerà più chiaro) da quella statale. Più di un terzo dei bambini italiani, fra i quali molti di nostra conoscenza, sta a scuola dalle 8.30 alle 16.30, quando va bene.

Perché quando va male, cioè quando i genitori devono liberarsene presto per motivi di lavoro, è spesso prevista la possibilità del pre-scuola, che in sostanza significa sveglia alle 6.30, a scuola alle 7.30, uscita alle 16.30 che diventano un orario molto più avanzato a causa di laboriose modalità di riconsegna, affannosa corsa verso una delle varie attività programmate (calcio e/o altro sport, inglese e/o musica, catechismo), ritorno a casa verso le 19. Una vita da impiegati, in altre parole, molto simile a quella dei loro genitori.

Niente di male per chi fa l’impiegato, ma come può un bambino reggere questi ritmi? Non a caso quelli che vediamo noi sono sempre e giustamente stanchi. Perché il sabato e la domenica, lo vediamo sul campo, ci sono compiti a casa da fare (che per fortuna non ci sono gli altri giorni, anche se certe scuole li danno lo stesso), senza contare gli sviluppi delle altre attività o le uscite insieme ai genitori. Leggiamo che il sogno di Di Maio sarebbe estendere il tempo pieno (traduzione: trovare i soldi per pagare tutti gli insegnanti in più) al 100% delle scuole primarie italiane, ma come per altri sogni a Cinque Stelle speriamo che questo non diventi realtà.

Come è possibile che un bambino non abbia durante la giornata un periodo di gioco o di interazione con suoi coetanei senza il controllo di adulti? Questa cosa del tempo pieno, fra l’altro introdotto come facoltativo da una legge del 1971 ed arrivato ai giorni nostri con varie modifiche, sconvolge le vite di molti senza che ci sia stato un vero dibattito. E i motivi sono chiari: più posti di lavoro statali da occupare, babysitteraggio gratis quando nessuno dei genitori ha un lavoro flessibile, una male intesa sensazione di sicurezza. Di certo le scuole elementari di oggi non consentono di fare il solito discorso da vecchi, del tipo ‘Ai nostri tempi sì che era dura’ e ‘Com’era formativo il calcio di strada’. No, per un bambino è molto più dura oggi: ha molte più pressioni, non fosse altro che perché raramente ha fratelli. E non abbiamo mai conosciuto uno nato dopo gli anni Cinquanta che abbia giocato a calcio in strada.

Comunque la settimana prossima iscrizione a un campus o un oratorio di quelli propositivi, in modo che ci sia un altro posto dove entrare all’alba ed uscire a pomeriggio inoltrato. Come se tutti i nonni fossero morti o pensionati in Portogallo, come se nessuno avesse un amico in grado a turno di controllare che non venga bevuto acido muriatico. Vietato annoiarsi, o anche soltanto pensare.

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