Giornalisti enogastronomici che non pagano il conto

15 Maggio 2019 di Dominique Antognoni

I giornalisti pagano il conto? O almeno il biglietto d’ingresso, ovunque vadano? Risposta facile: quasi mai. Nè allo stadio (l’unico che tentò di invertire la tendenza fu Giraudo) né agli spettacoli. E tanto meno al ristorante, se si parla della maggioranza dei giornalisti enogastronomici. Tema interessante, per la credibilità di ciò che si legge.

Non ci allarghiamo e parliamo del nostro mondo, anche se tanti ragionamenti possono essere trasportati in altri settori. Pensiamo che si dovrebbe fare un po’ di chiarezza sulla faccenda dei giornalisti invitati nei ristoranti, che è lontana anni luce dal fatto che molti si autoinvitino con consorte e prole, spesso a ripetizione: non facciamo confusione. 

Partiamo da un presupposto: oggi nessun quotidiano e in generale nessuna testata ha le possibilità (e l’intenzione) di sostenere le spese di un giornalista che segua e scriva di alta ristorazione. Facendo un esempio pratico: se uno ha la possibilità e lo spazio per scrivere sei volte al mese, significa che va minimo sei volte al ristorante. Facendo una media di 150 euro per ognuno, sono 900 al mese, 10.000 all’anno. Cifre che per un giornale italiano sono utopia pura: la quasi totalità dei collaboratori, spesso dipendenti mascherati, guadagna meno di questa cifra.

Certo, fa impressione sapere che la critica gastronomica del New York Times, Ruth Reichl, andava anche quattro volte nello stesso ristorante prima di emettere un giudizio, però parliamo di altri mondi e altri tempi.
Molti, di solito i ristoratori ignorati, sbraitano istericamente contro i giornalisti o presunti tali, accusandoli di non pagare di tasca loro. Ma sarebbe una follia, per di più improponibile: sborsare delle somme di danaro per lavorare è un po’ un controsenso, per non dire che non ne avrebbero nemmeno la possibilità, visti gli stipendi attuali.

Si deve pagare di tasca propria quando si va per conto proprio, ma questo è un altro discorso. Con i propri soldi uno non va alla scoperta di nuovi ristoranti, a caso, ma va solo dove gli garba, perché va per piacere. Il lavoro è un altro mondo, con altre esigenze. 

Dunque, quale soluzione rimane? Che gli chef, oppure i ristoratori, li invitino. E qui non si tratta di “andare a ufo”, come diceva un pittoresco signore qualche giorno addietro. Se uno chef ti invita, lo fa perché così ti racconta cosa fa e come, la propria filosofia. Al di là dell’ipocrisia è evidente che si tratta di un compromesso, certo: tu essendo ospite non puoi bastonarlo, non hai la libertà che avresti se fossi andato a spese tue. Certo non per questo lo devi incensare, ma è chiaro che sei frenato, un po’ anche dal buonsenso e dall’educazione.

Poi va detto che la maggioranza dei giornalisti è arrendevole e timorosa di suo, naturalmente, sperando che più esalterà più verrà invitata: é qui che scatta l’allarme rosso. Però se non fossero gli inviti i giornalisti non avrebbero il modo di scrivere alcunché. E sui giornali non ci sarebbe nemmeno una riga di articolo. Insomma, è un problema che propone soltanto soluzioni sbagliate.

Poi in questo circo degli inviti ci sono modi e modi, alcuni più professionali, altri più beceri, tipo gli inviti di gruppo, con 30 persone in un colpo solo: lì non si tratta più di giornalismo, lì è una sagra e si scende nel grottesco, o nel ridicolo. Alcuni chef lamentano che la stampa non segue da vicino la loro evoluzione nel tempo, dimenticando il fatto che, solo a prendere i ristoranti e gli chef più importanti d’Italia, siamo a quota 500. Pur volendo, non si riesce a seguire tutti in maniera costante e qui non è nemmeno questione di soldi.

Morale: il punto non è essere invitati, ma come ci si comporta dopo. Chi ha personalità riesce a essere sobrio ed equilibrato, chi non ce l’ha parla sempre e solo di piatti formidabili. Il che per carità, spesso accade, ma per alcuni accade sempre, ad ogni occasione. Ci sarebbe anche l’altra faccia della medaglia, che è un bel grattacapo: non puoi invitare tutti, devi scegliere e qui iniziano le invidie, le cattiverie degli esclusi, che appena si sentono fuori dal giro degli invitati scatta l’operazione sabotaggio. 
Ci sono valanghe di giornalisti che si sentono offesi se non vengono invitati per primi, o non invitati e basta, come se fosse un dovere. Le esagerazioni sono queste, non un invito cortese per assaggiare i nuovi piatti. Di certo leggere stroncature, se non per aspetti particolari del servizio, è molto difficile: non è un caso che anche a noi capiti di scriverle soltanto quando paghiamo con soldi nostri.

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