Cagnoni da playoff

16 Maggio 2019 di Oscar Eleni

Oscar Eleni dalla montagnetta milanese di San Siro, solito eremo per i play off del basket, immobile, triste, guardando verso lo stadio Meazza che forse soltanto l’assegnazione delle Olimpiadi potrà salvare dall’abbattimento. Non è stato così per l’ippodromo del trotto dove una volta ci mandarono ad intervistare Varenne.

Sapendo che non avevamo il talento e la genialità del Gigi Gianoli che una volta intervistò davvero Ribot, galoppatore del sogno come il trottatore che adesso ha più di cento figli, tutti da guardare anche a casa belli rovinati come diceva l’amico geniale Beppe Viola quando usciva male dal San Siro galoppo.

Sui prati ricavati dalle macerie della guerra c’è un giardino dei giusti, in un periodo dove comanda la grande ingiustizia. Sull’erba dei percorsi che Rondelli aveva chiamato Cova e Panetta, quando i suoi due campioni faticavano sognando Olimpiadi e Mondiali poi vinti, si cammina liberi. Felici nel sentire  lontani i rumori ostili della città, ancora più contenti se  si può camminare vedendo scodinzolare felice il vostro cane. A meno che non vi arrivi addosso il cagnone ringhiante del padroncino irritato che vorrebbe giustificare il suo campione perché il piccolo meticcio ha osato ribellarsi. Un po’ come la critica di oggi divisa fra i ricchi e i poveri, privilegiando i primi anche se bugiardi, ovviamente.

Proprio come succede in questo basket per i play off dove anche chi non sa niente considera Milano favorita. Non è un gioco delle parti per mettere pressione, come dice chi cerca sempre alibi, una realtà visibile anche a chi finge di essere difensore nel nome di chi non ha mai saputo difendere neppure un metro della sua area. Lo sanno anche i sassi che la squadra di Armani ha tutto e di più, pur considerando l’assenza di Gudaitis e gli incidenti recenti di James, o la lungo degenza di Nedovic. La panchina rossa, se non russa, può travolgere squadre che  a quei rincalzi darebbe il quintetto base. Ma i cagnoni non ci stanno. Ringhiano e ti danno la colpa se guardi con ammirazione chi ha fatto molto più di quello che ci si poteva aspettare. Succede, nello sport. Se hai fortuna, ma anche se lavori bene.

Mentre ululano le sirene dell’Olimpico, dove non è arrivato ai tifosi per la finale di coppa Italia il messaggio di chi vorrebbe vederci tutti pecoroni paurosi, guardiamo verso la collina triste della nostra Spoon River dove è andato Roberto L. Quercetani, ricordato così bene da Colasante e Cimbrico, ignorato così male dalla rosea che ci impone la cadenza di lettura come se fossimo i robot di Amazon, quelli che fanno pacchi meglio degli umani e che non puoi tenere alla deriva, macchine che vengono sicuramente prima degli italiani, anche di quelli che le hanno inventate, e che, stranamente, non fanno paura e attaccandole non ti danno più voti. Un necrologio in rosa degli amici romani. Nient’altro per il mio grande tutor, l’angelo custode che fece diventare un bel viaggio l’europeo di Helsinki a 27 anni quando in Gazzetta si viveva il dramma di Alfredo Berra che aveva incontrato la malattia sul campo dopo troppe notti senza cena, dopo un viaggio professionale straordinario. Già chi li ricorda. Succede.

Ascoltate l’assordante silenzio intorno alle dimissioni di Boscia Tanjevic dal basket che gli aveva chiesto un progetto per un nuovo reclutamento, per ridare ossigeno alla cultura del lavoro, al coraggio, alla generosità che sembra mancare ai presunti vincenti di oggi. I gattini, non soltanto quelli federali, sono tutti in fuga verso la lettiera dove lasciano le loro deiezioni. Tempi moderni aspettando il Mondiale e la prevedibile battaglia, una sofferenza per il Petrucci a cui piace il Bianchi di oggi per la presidenza di Lega se davvero Milano manderà in campo il suo cavaliere appena uscito dal regno Armani.

Aspettando i quarti di un play off che dovrebbe dare  a Milano e Sassari la semifinale, come a Cremona e Venezia nell’altra parte del tabellone, fermiamoci a guardare l’isola dei canestri fra gente capricciosa che se non vince diventa bartaliana: tutto da rifare.

Noi vorremmo che Trieste facesse una bella serie contro Cremona perché ci manda in paranoia l’idea che alla fine di questi gioco, se non troveranno almeno 4 milioni di euro, dovranno cedere il titolo al miglior offerente: Udine la più decisa, ma certo la meno amata in città, magari Verona.

Non riusciamo a credere che Trento parlerà di rinnovo del contratto con Buscaglia soltanto alla fine del play off contro la favorita Venezia. La gratitudine non è consigliata ai dirigenti nello sport, come direbbero a Roma, prendendosi carciofi alla giudia in faccia, però ci fa male lo stesso. Nessuna pietà per Gattuso o Spalletti, che di certo non vengono trattati con gli stessi guanti di Pianigiani all’Armani. Almeno su questo non si potrà mentire.

Per fortuna c’è anche un basket al di fuori, quello della memoria come lo abbiamo vissuto nella notte della bresciana Gussago, Franciacorta, nel ricordo del barone Sales dove abbiamo incontrato anche Paolo Polzot che passa la sua pensione sui quei vigneti ricordando belle stagioni da giocatore, abile, intelligente. Bella serata organizzata da Simone Sossi, la spalla telematica di Giordani per il vero Superbasket, presentata bene da Franco Bassini. Occhi lucidi e grandi ricordi per Ario Costa, arrivato da Pesaro, Silvano Motta asciutto come ai tempi belli, Fabio Fossati viaggiatore viaggiante arrivato alla femminile dopo una bella vita sul campo anche grazie ai consigli di Sales, il sempre meraviglioso Udo Marusich, chiedere di lui ai posteggi di Malpensa uno, che ci ricorda tanto Pino Brumatti, il sorprendente Mario Pedrotti, l’inesauribile Giorgio Maggi, figlio di un grande allenatore dell’ippica, assistente del barone per tanti anni. Ascoltando Magda Marconi, discendenza Maurensig, che nel suo libro ha raccontato bene il viaggio con il suo Riccardo, ci siamo persi dietro le testimoniane via cavo di Arrigoni, Bianchini, Marzorati, avendo un sussulto sulla sedia quando è apparso Sergio Scariolo in tenuta Raptors.

L’ultima volta vi avevamo detto che non c’erano più italiani nei play off NBA dopo la caduta di Mike D’Antoni. Errore, fatto notare dagli amici di Sergio e non soltanto da loro. Ce ne scusiamo. L’età. Sapete agli anziani non si devono fare troppi rimproveri. Ci restano male. Così come siamo stati male dovendo rinunciare all’invito di Biella ai primi di giugno per i 25 anni della società, al pranzo con Atripaldi, l’unico che forse avrebbe potuto salvare Torino ormai abbandonata. Così come ci siamo sentiti impotenti non trovando un passaggio per il funerale di Taurisano dove c’erano tutti i suoi campioni, dove c’era Gian Mario Gabetti e, purtroppo, nessuno della società bresciana come avevano notato i vecchi del basket che c’erano prima della Leonessa.

Speriamo di avere un passaggio almeno per la presentazione del nuovo Trofeo Pavoniano, memorial fratel Brambilla, dove ci vuole Colnago con un invito in uno dei ristoranti di Governa, ex Olimpia quando anche la panchina era vita, pensiero, simpatia, il Setes Giò di cui i più giovani avranno sentito parlare. Mandando via da casa con i fiori l’ultraottantenne Ghighi Parodi che cercava  ci ricordava le notti alla Notte, i viaggi come inviato di Famiglia Cristiana, il sito Cus Genova basket story su facebook (si chiamerà sito?), la sua squadra, il suo mondo plastico e straordinario, ci siamo messi a pensare al basket che non ci fanno più vedere dal campo. Difficile sedersi,  trasmettere, lavorare. Ve ne parleremo comunque ogni volta che la ghigliottina del play off, adesso sognato anche dal calcio dopo un campionato morto giovane, chiuderà la stagione delle squadre eliminate. Chi sarà la prima ad uscire? Ad occhio Avellino se Milano ci consente l’ardire della previsione.

Ci lasciamo così, con i rancori di sempre.

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