Joe Barry Carroll, stella arrivata da stella

24 Aprile 2019 di Stefano Olivari

Domenica la partita fra Olimpia Milano e Scandone Avellino avrà come ospite d’onore nientemeno che Joe Barry Carroll. Nome che dice poco agli appassionati giovani, ma che nella storia della nostra pallacanestro ha una caratteristica unica: si tratta infatti del primo e ultimo giocatore NBA di alto livello arrivato in Italia nel pieno della carriera.

Non prima, come tanti da Bill Bradley a Manu Ginobili, né dopo come tantissimi da Bob McAdoo a George Gervin, ma durante. Dopo quattro anni ai Golden State Warriors una vertenza contrattuale lo aveva portato a minacciare un anno di stop o all’estero. E all’epoca l’Italia e la Spagna erano le uniche opzioni credibili.

Lui voleva dagli Warriors un milione e duecentomila dollari a stagione e nella NBA non avrebbe accettato un dollaro di meno. Per non rimanere totalmente inattivo si fece però andare bene i 300.000 dollari di Gabetti, all’epoca 500 milioni di lire (come potere d’acquisto 750.000 euro di oggi).

Così Carroll firmò a inizio dicembre per l’allora Simac Milano, allenata da Dan Peterson. Squadra che in quel 1984-1985 puntava con decisione allo scudetto, dopo le due storiche finali perse con Roma e Virtus Bologna, e che aveva come stranieri Wally Walker e Russ Schoene. Walker stava giocando meglio di Schoene, ma il prescelto per il taglio fu lui. Piuttosto a sorpresa, visto che era un’ala piccola, e con modalità umane pessime. Per il dispiacere Walker, che era stato quinta scelta assoluta nel 1976, non provò nemmeno a rientrare nella NBA: prese un master e Stanford e avrebbe lavorato per molti anni a Goldman Sachs e in proprio con un suo fondo, prima di ascoltare il richiamo della foresta ed essere dirigente nella parte finale della grande storia dei Seattle Supersonics.

Carroll non arrivò comunque per svernare e in quei pochi mesi fu la stella di una della squadre più forti mai viste dalle nostre parti, anche perché era quella la prima stagione di Mike D’Antoni utilizzabile come italiano. Carroll è stato importante nella pallacanestro anni Ottanta non soltanto per quello che ha fatto come centro, molto tecnico e per i parametri dell’epoca anche abbastanza soft, ma perché nel 1980 fu prima scelta assoluta al draft NBA, dopo quattro ottimi anni a Purdue. La scelta sarebbe stata dai Celtics, che però la cedettero agli Warriors in cambio del loro Robert Parish, scontento e in ogni caso in partenza, e della scelta numero 3 con cui Auerbach mise le mani su Kevin McHale. Che in quell’estate 1980 fu anche vicinissimo a Milano, storia raccontata mille volte da Peterson. In quel megascambio agli Warriors arrivò anche la scelta numero 13, che cadde su Rickey Brown, che otto anni dopo avrebbe alzato la Coppa dei Campioni nell’Olimpia allenata da Franco Casalini… A dirla tutta per qualche giorno Aldo Giordani ci fece sognare già in quel 1980, visto che Superbasket scrisse di un Carroll disposto a venire in Italia subito dopo il college.

Tornando a Carroll e a quel 1984, stampati nella testa abbiamo il suo brutto esordio in casa contro l’Indesit Caserta di Tanjevic, Oscar e del giovanissimo Gentile, al Palazzone di San Siro (lì dovrebbe sorgere il fantomatico stadio di proprietà di Inter e Milan), ma anche tante sue giocate straordinarie. Fra queste una non proprio da JBC, una pazzesca schiacciata lanciato in contropiede da un passaggio dietro la schiena di D’Antoni, al Palalido contro Napoli. Già, il Palalido. Poche settimane dopo l’arrivo di Carroll il Palazzo dello Sport di San Siro divenne inagibile per l’incompetenza di chi ne curava la manutenzione (non sospettava che con il freddo la neve potesse diventare ghiaccio) e la Simac dovette barcamenarsi fra soluzioni provvisorie, come il vecchio Palalido e nei playoff un tendone a Lampugnano di fianco alla zona dove poco più tardi sarebbe sorto il PalaTrussardi.

Non proprio il teatro adeguato a una stella NBA di nome e di fatto, visto che nel 1987 dopo il ritorno agli Warriors sarebbe stato convocato per l’All Star Game, nell’Ovest allenato da Pat Riley dove gli altri centri erano Olajuwon e Jabbar. In Italia Carroll aveva predicato basket, al di là dei 25 punti a partita, e lasciato un ricordo indelebile anche fuori dal campo. Non a caso il suo dopocarriera è stato pieno di attività e di interessi: una vita ricca in cui la pallacanestro è stata una grande parentesi. Forse il suo soprannome NBA, ‘Joe Barely Cares’, era azzeccato, ma anche se gliene fregava poco rimaneva per noi di un altro pianeta.

Share this article