Justin Trudeau, il declino dell’uomo Instagram

3 Marzo 2019 di Tani Rexho

Quando Stephen Harper, dopo avere incontrato il suo successore, tornò a casa in un pomeriggio freddo di novembre, suo figlio Ben, studente di economia al primo anno alla Queen’s University di Kingston, vide sul suo volto un’espressione mai notata prima. “Cos’è successo, papà?”. Niente di grave per lui, molto per il Canada: “Ben, quell’uomo sa di economia molto meno di te. In quali mani abbiamo messo il paese?”. L’uomo al quale si riferiva Harper padre era Justin Pierre James Trudeau, il 23mo primo ministro canadese. Era il 2015.

Stephen Harper durante la campagna elettorale del 2015

Harper è uno di poche parole, non ama la stampa e soprattutto la stampa non ama lui, non ha paura di essere impopolare o esprimere pareri non proprio politicamente corretti, pur nei confini dell’educazione e della decenza. Ma soprattutto è preparato, tanto che nel novembre 2015 lasciò un paese con le finanze solidissime. Però era iniziata l’era di Instagram e lui non era fotogenico, né abbastanza populista per intercettare da destra lo spirito del tempo a colpi di frasi memorabili. Non aveva un sorriso da modello, ma soprattutto non parlava per slogan. Non aveva paura di affermare pubblicamente che una donna che aveva chiesto e ottenuto la cittadinanza canadese non poteva presentarsi alla cerimonia della cittadinanza coperta dal niqab. Non aveva grande feeling con Obama (lo considerava uno che non sapeva decidere) e detestava Putin (glielo aveva fatto presente di persona, non attraverso i social network: non ci ricordiamo altri leader occidentali che l’abbiano fatto). Non aveva il mito dell’uomo forte ed era contro l’apertura indiscriminata dei confini per I profughi siriani. Era apertamente pro Israele, tema che lo aveva reso antipatico agli estremisti. Insomma, era uno che non aveva paura delle sue opinioni. E perse.

Perse contro un uomo che era tutto l’opposto. Impreparato, senza coraggio, politicamente corretto a tutti costi. Però era fotogenico e piaceva alla stampa, ma soprattuto piaceva a quel mondo liberal-democratico che disperatamente cercava un sostituto di Obama, che di lì a poco avrebbe lasciato il posto a Trump. Justin era l’uomo perfetto nell’era dove la politica si fa sui social. Solo che Trudeau non ha bisogno di Twitter, anche se scrive in inglese meglio di Trump. La sua forza era Instagram. Il suo marchio era quello di un uomo (foto)modello: femminista, ecologista, globalista, transgenderista e tutti gli ‘ista’ che vengono in mente. L’inizio di Trudeau fu con i fuochi d’artificio, come i media anche italiani hanno ben raccontato (mai notato tanto interesse per il Canada come in quel periodo). Un gabinetto fatto di molte donne e molti immigrati di prima generazione. Copertine, la stampa progressista mondiale che lo celebra come l’anti Trump, e soprattuto come l’antipopulista per antonomasia. Un power brand progressista. Quello dei princìpi e della superiorita morale. Adesso però Justin il Bello doveva governare, sporcarsi le mani, navigare nelle acque torbide della politica e dei compromessi. Lasciamo stare le finanze del paese (peggiorate di anno in anno), la politica estera (imbarazzante il suo viaggio in India), i 250 mila dollari dei contribuenti per viaggi privati. O peggio, l’aggravarsi della situazione in Alberta e la crisi dell’industria del petrolio. Concentriamoci solo sul brand Trudeau.

Kent Hehr

L’uomo era stato un forte supporter del #me too, senza se e senza ma. Nel gennaio del 2018 ha dichiarato alla CBC: “Non esiste alcun contesto nello quale uno non abbia responsabilità per le cose fatte in passato. Nessuno può accusare me delle cose che sentiamo questi giorni. Perché io ho sempre rispettato le persone”. Insomma, il passato non cade in prescrizione, per lo meno dal punto di vista politico. Qualche giorno dopo questa intervista, il deputato liberale e ministro per lo sport Kent Hehr divenne oggetto di accuse per molestie. Trudeau fu inflessibile. Tolleranza zero, garantismo meno di zero. Hehr licenziato. Qualche mese dopo però è stato rispolverato un articolo publicato in un giornale di provincia nel 2000. All’epoca la reporter del giornale si era lamentata con i suoi capi delle avances e delle mani addosso messe da un ventottenne Justin Trudeau. L’uomo inflessibile prima ha detto di non ricordarsi dell’episodio, poi che “c’era stato un malinteso”, finendo con una mezza ammissione:  “Questo episodio ricorda a tutti come le persone vivano le esperinze in maniera diversa”. Un capolavoro di politichese, una indegna piroetta nel giro di pochi giorni. Intanto però la sua immagine teneva, per merito anche dell’immagine di quello che siede alla Casa Bianca, che tra scandali veri e presunti quotidiani ha tolto anche qui da noi in Canada spazio mediatico alle gesta di Trudeau.

Jody Wilson-Raybould e Justin Trudeau

Quando nel 1983 Bill Wilson, capo della tribù Kwakwaka’wakw, di fronte all’allora primo ministro Pierre Trudeau raccontava I sogni di sua figlia di 12 anni di diventare un giorno avvocato e primo ministro, non crediamo che veramente immaginasse che sua figlia Jody sarebbe diventata Ministro della Giustizia e Procuratore Generale del Canada. E che il suo capo sarebbe stato il figlio (coetaneo di Jody) dell’uomo arrogante seduto di fronte a lui. SNC-Lavalin è una delle aziende piu importanti in Canada: ha sede a Montreal e nel settore delle costruzioni è una potenza, pur avendo (o proprio perché ha avuto) nella sua storia vari scandali. Fra questi il pagamento di tangenti milionarie in Libia ai tempi di Gheddafi, vicenda per cui è nel mirino della giustizia canadese dal 2015. La probabile condanna per corruzione significherebbe l’esclusione da ogni progetto finanziato con soldi pubblici per almeno 10 anni. Mentre il Governo Trudeau si preparava a presentare la legge finanziaria per il 2018, qualcuno in commissione si accorse di una norma infilata in silenzio, in puro stile Cialtronia. Norma che proponeva una specie di accordo tra la procura e le eventuali società accusate di corruzione, con multa per le aziende indagate evitando cosi i processi, ma soprattutto l’esclusione dagli appalti pubblici. SNC-Lavalin aveva una fretta pazzesca, nemmeno voleva aspettare che la norma passasse in Parlamento e chiese tramite I suoi legali che si andasse ad un accordo con la procura, spiegandola più o meno così: “Se non ci ammorbidite la legge saremo costretti a licenziare piu di 5000 persone”. La procura rispose con un no secco. Quindi processo. A questo punto, uomini vicinissimi a Trudeau chiedono “gentilmente” a Jody Wilson-Raybould di intervenire con la procura per ammorbidire la posizione dei procuratori. Lei è l’unica con l’autorità per farlo. Lei risponde che c’è poco da intervenire. La decisione della procura è quella giusta. È la volta del  capo del gabinetto del Ministro delle Finanze, Bill Morneau, di far notare al Ministro della Giustizia che “Senza un accordo perdiamo posti di lavoro”. La risposta è la stessa: no, si deve andare al processo.

Jody Wilson-Raybould

Fin qua niente di cosi strano, visto che non siamo a Utopia. Moralmente sbagliato si, ma si tratta del Quebec e dei voti necessari ad un anno dalle elezioni. Però doveva finire lì. Invece Trudeau si stizzisce. Ma come, io questa qua l’ho messa in uno dei ministeri più importanti e mi tradisce così? Decide così di scendere in campo: “Bisogna fare l’accordo, Jody“. Risposta: “Da membro del governo capisco l’importanza dei posti di lavoro, ma da Procuratore Generale di questo paese io devo pensare alla legge, perciò non si puo fare l’accordo”. ‘ La facciamo breve: le pressioni sulla Wilson-Raybould continueranno per 4 mesi da diverse persone dell’entourage di Trudeau, con minacce di ogni tipo, ma lei non cederà. Finché nel gennaio di quest’anno l’idolo di molti europei decide di toglierle il ministero della giustizia, per metterla a quello dei veterani. Collocando alla giustizia un parlamentare di Montreal, cioè del posto in cui Trudeau viene eletto e dove hanno sede la SNN-Lavalin e le lobby che la sostengono. Quando lo scandalo diventa pubblico, Justin Trudeau fa di tutto per impedire a Jody Wilson-Raybould di testimoniare, visto che lei essendo Procuratore Generale sarebbe stata vincolata al segreto per quanto riguarda le conversazioni con altri membri del governo. La maschera finalmente cade. Trudeau inizia ad interpretare le sensazioni di lei: “Noi abbiamo pensato al paese. Lei sicuramente ha male interpretato qualche parola di preoccupazione per i posti di lavoro che andranno persi”. La pressione dell’opinione pubblica forza però Trudeau a togliere l’obbligo del silenzio alla Wilson-Raybould per tutti gli eventi successi fino al dicembre 2018, proibendole di parlare di ciò che è successo durante il gennaio 2019, quando lei era ancora membro del governo prima di dimettersi definitivamente a inizio febbraio.

Arriviamo così al presente. Mercoledi scorso, mentre un uomo chiave degli affari loschi di Trump raccontava al Congresso Americano di come la Trump Organization avesse trasferito i suoi traffici dal 721-725 Fifth Avenue di New York al 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington, a Ottawa, l’ex ministro della giustizia canadese forniva una delle testimonianze più lucide e coraggiose mai ascoltate in questo paese. Una testimonianza che senza mezzi termini ha mostrato ai canadesi che le parole nobili del loro primo ministro valgono fino a quando una donna indigena non si mette di traverso rispetto a lui e al ‘sistema Quebec’, che meriterebbe un articolo a parte, almeno per chi non vive in Canada. L’inizio della fine per Justin Trudeau è stato il non aver capito che lui tutto era tranne che moralmente superiore. Sul piano dei comportamenti privati e di quelli pubblici. Non crediamo che si dimetterà, perché l’arroganza gli è rimasta e le elezioni sono in ogni caso a fine anno. Cercherà di sopravivere fino ad allora, sperando nella memoria corta dei canadesi, e soprattutto in due leader dell’opposizione senza troppo carisma. Magari vincerà ancora, anzi è probabile. Anche se in Canada la sua immagine è compromessa per sempre: è diventato un politico come gli altri, da votare o non votare, non più un’icona pop con i suoi giornalisti leccapiedi e le sue groupie.

Abbiamo vissuto tantissimi anni in Italia, ma non riusciamo ancora a capire un fenomeno politico-mediatico che si ripropone con nomi diversi e per tutte le parti politiche. Qualcosa che va al di là dell’esterofilia e che potremmo definire mitizzazione di ciò che è lontano. Quanti italiani di quelli che esaltano il decisionismo di Putin vorrebbero vivere nella Russia di Putin? Quanti di quelli che criticano ogni leader del PD perché non è come Trudeau, Tsipras, Sanchez o chissà chi, sanno realmente come governi il Trudeau della situazione? Da lontano tutto è migliore. Prossima icona pop della politica italiana? Magari Jody Wilson-Raybould.

Tani Rexho, da Toronto 

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