Perché i pastori sardi buttano il latte?

15 Febbraio 2019 di Indiscreto

Tutti hanno visto le immagini dei pastori sardi che buttavano il latte, dai cavalcavia e anche a livello strada. E tutti più o meno sanno il perché: il prezzo a cui vendono il latte di pecora ai produttori di formaggio, in particolare a quelli di pecorino romano, è crollato a 62 centesimi al litro. La remunerazione alla stalla, quindi. 14 centesimi, o giù di lì, sotto al costo di produzione. In altre parole, gli allevatori sardi stanno producendo latte in perdita e si sono stancati di farlo: una protesta che sta dilagando anche in altre regioni (anche la Sicilia degli indimenticati Forconi) e per altri prodotti, intercettata da Salvini e di sicuro fra poco anche dai 5 Stelle, secondo il solito schema. Come si fa a non stare dalla loro parte, noi del bar? Eppure…

Intanto la produzione di latte, come quasi tutta l’agricoltura europea, è dopata dalle mille sovvenzioni e dai vari premi statali e comunitari (non sappiamo nulla di latte, ma per motivi familiari siamo preparati sul grano e le sue logiche a prima vista, ma anche alla seconda, folli). Senza questi sussidi sparirebbe quasi tutto, tranne alcune coltivazioni bio o molto particolari, oltre a quelle che puntano all’eccellenza e al vecchio autoconsumo di nostra nonna. Dai dati del Sole 24 Ore risulta che nel 2018 il prezzo di vendita del latte di pecora è crollato da 0,79 euro al litro (comunque meno dell’obbiettivo degli allevatori, che è un euro) a 0,63. Pur in perdita, si andava avanti a produrre perché il prezzo copriva almeno i costi variabili, ma da gennaio i prezzi nemmeno coprono i costi variabili e quindi tanto vale stare fermi e buttare il latte già munto. Un delitto contro la fame nel mondo, ma anche l’unico mezzo per farsi ascoltare: quanti pastori sardi abbiamo finora visto a Porta a Porta (forse se ammazzassero il cognato) o dalla Gruber (dovrebbero appartenere a una corrente del PD, almeno)?

Ma perché il prezzo è crollato? I produttori di pecorino sono diventati stronzi? Tutto può essere, ma di sicuro sono crollate le esportazioni di questo formaggio negli Stati Uniti, senza stare a sottilizzare sulle definizioni di ciò che è pecorino: non perché con Trump si grattuggi meno formaggio, ma perché negli USA ne esportano di più e a un prezzo inferiore i paesi dell’Est Europa e addirittura la Francia e la Spagna. Passi per la Bulgaria, ma come fanno in Francia a produrre un pecorino che piaccia di più negli Stati Uniti e a un prezzo inferiore? Evidentemente in qualche anello della catena ci sono sussidi superiori a quelli italiani, magari sfuggiti ai radar dell’Unione Europea: non lo sappiamo, stiamo ipotizzando. Può anche essere che i costi industriali della trasformazione, in Italia, siano troppo alti e la qualità bassa (non è che tutti siano eccellenze, non siamo mica a Sereno Variabile). Prima di invocare le mitiche leggi del mercato, in cui peraltro crediamo, accertiamoci che ci sia un vero mercato. Perché soprattutto nell’agricoltura e nell’allevamento non si gioca mai ad armi pari. Se così fosse, bisognerebbe dire agli allevatori di chiudere l’azienda, di chiedere il reddito di cittadinanza e di far studiare i propri figli da influencer. Non stiamo dicendo che i pastori sardi abbiano di sicuro ragione, anche perché queste proteste si ripetono da decenni, ma che bisogna capire se c’è un interesse nazionale nel mantenere in vita artificialmente il loro settore. Gli stessi ragionamenti fatti con l’Ilva, insomma. Sembra di stare dentro l’ultimo libro di Houellebecq, soltanto che la Normandia si è spostata nell’Oristanese. Fra 9 giorni elezioni regionali in Sardegna.

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