Ancora Brady, comunque vada a finire il Super Bowl LIII

2 Febbraio 2019 di Roberto Gotta

Domani ad Atlanta i New England Patrios giocheranno il Super Bowl numero 53 contro i Los Angeles Rams (Diretta televisiva su Dazn, telecronaca in italiano di Matteo Gandini e mia). Pronostici aperti e una sola certezza: gli occhi del pubblico generalista, cioè del pubblico che rende eventi epocali quelli che in in ogni caso sarebbero grandissimi eventi sportivi, saranno principalmente per Tom Brady. Che a 41 anni e mezzo giocherà il suo nono Super Bowl: ne ha già vinti cinque, sempre con Belichick allenatore. Per scaldarci (in tutti i sensi, visto che fra non molto uscirà un altro nostro libro sul football) riproponiamo quindi un capitolo di ‘Football & Texas – Storie americane’, riguardante proprio Brady e i Patriots…

Super Bowl XXXVIII: New England Patriots 32-Carolina Panthers 29

E adesso cosa faccio? Sono entrato nei bagni dell’hotel di Houston che funge da quartier generale della NFL, e ho come l’impressione di avere interrotto qualcosa di delicato, a giudicare dagli sguardi dei due uomini nell’angolo che al mio ingresso si girano con l’aria preoccupata verso di me. Preoccupata, ma mai imbarazzata come la mia. Che stava succedendo? Poi capisco, con una ventata di sollievo che mi travolge come un tornado, un Texas Twister. Niente di torbido: i due sono nelle toilette solo in quanto luogo momentaneamente deserto in un albergo brulicante di persone, ma il loro interesse è diretto al Super Bowl, ai soldi, ai biglietti. Quelli che i due si stanno scambiando, a tre giorni dal kickoff. La segretezza, piuttosto abituale per chi svolge un determinato genere di transazioni economiche che sfuggono a qualsiasi regime fiscale, è giustificata dalla scarsa chiarezza delle norme locali sulla rivendita dei biglietti per qualsiasi evento, sportivo o culturale: in teoria ai tagliandi viene applicata la medesima norma (40.8 del codice cittadino) che vale per qualsiasi tipo di mercanzia, ovvero non è legale venderli in un luogo pubblico senza specifica autorizzazione, ma nella pratica si sa che la regola viene fatta osservare con vigore solo in prossimità di teatri e arene sportive, e quando non sia irragionevole distogliere decine di agenti che sarebbe più utile impiegare altrove. Una questione di buon senso, quando non ci sono i numeri per vigilare su tutto, ma è sempre prudente, per chi viva di questi commerci loschi e chi voglia semplicemente tirare su qualche dollaro cedendo un biglietto in eccesso, cercare un luogo lontano da sguardi di qualunque tipo. Dopo avere ovviamente avviato la pratica nella solita maniera, un incrocio di occhiate e sussurri, cartelli espliciti con richiesta di biglietti e dita della mano alzate, fermi come statue o in perenne movimento come squali alla ricerca di prede, ad indicare il numero di tagliandi richiesti. Va da sé che anche chi vuole vendere passa per scorciatoie abituali come il bisbiglio «anyone selling tickets?», la domanda che in sé non costituisce alcuna forma di reato e dunque garantisce sicurezza, ma che non è altro che il segnale in codice di chi in realtà vuole vendere, e assicurarsi prima di tutto che il suo interlocutore sia affidabile e non tiri fuori all’improvviso un distintivo. Come poi una volta, a Houston, accadde a parti quasi rovesciate: un agente dell’FBI sotto in abiti civili venne arrestato da un poliziotto locale in borghese perché aveva tentato di rivendere, a prezzo di costo e dunque senza guadagno personale, un biglietto per gli Astros della Major League Baseball.

E comunque quel giorno all’hotel c’era davvero di tutto. Mancavano due giorni alla sfida tra New England Patriots e Carolina Panthers e si era dunque in quel periodo di tempo in cui si galleggia tra la fine della settimana di vigilia, così lunga e densa da farti quasi dimenticare che poi alla domenica si gioca pure, e la partita, che è poi un’entità così speciale e così particolare, così adrenalinica e così violentemente emotiva anche per uno spettatore da prosciugarlo. All’autore del libro è capitato regolarmente di terminare la visione di un Super Bowl in uno stato di prostrazione fisica ed emotiva tale da farlo sentire come se fosse stato a bordo campo nello staff tecnico di una delle squadre, e non in una tribuna stampa a 50 metri dall’azione. A drenarti energie sono i tempi di trasferimento dal Media Center allo stadio con lunghe attese in coda, ai controlli e nel pre-gara, la tensione nel seguire ogni azione, i lunghi percorsi a piedi all’interno dello stadio e in entrata ed uscita dalle aree riservate, la costante ressa nella zona interviste: niente di lontanamente paragonabile alla fatica che fa il meno impegnato degli inservienti allo stadio, sia chiaro, ma una giornata in cui, se sei appassionato oltre che giornalista, ti alzi al mattino e senti subito l’energia positiva della partita per liberartene solo molto dopo la mezzanotte. Ed è – lo dico, e lo ripeterò fin che campo – una delle sensazioni spossanti più deliziose che ci possano essere.

Ma in quel venerdì sospeso tra la densità della settimana, il sabato di decompressione psicologica e la domenica della tempesta emotiva, c’erano ancora migliaia di persone incapaci di descrivere il proprio futuro vicino. Quello della domenica. Quello della partita. L’avrebbero vista, o no? Houston brulicava di uomini che sussurravano ai passanti, perché sapevano: sapevano che si giocava in una città dove il fuoco per il football arde sempre, con una squadra, i Patriots, che tornava al Super Bowl a due anni di distanza da un inatteso trionfo, e con una sfidante, i Panthers, al suo primo viaggio alla finale, a soli nove anni dalla fondazione. Per dirla tutta: qualunque sia il nome delle due finaliste, la domanda di biglietti è sempre così nettamente superiore all’offerta da far diventare grotteschi i tentativi di alcuni disperati di approssimarsi a bagarini sperando di spendere meno di 1000 dollari, e stavolta ancora di più. Non c’erano squadre di New York, Philadelphia (i cui tifosi avrebbero sommerso di verde Jacksonville dodici mesi dopo, uno spettacolo che non ho mai più visto), Chicago, Dallas, Pittsburgh, che tradizionalmente hanno portato con sé decine di migliaia di tifosi con buona disponibilità economica e dunque in grado di mantenere alto, per domanda/offerta, il prezzo dei tagliandi, ma New England non era da meno, in quel momento, perché la potenziale dinastia era appena iniziata e c’era ancora vivissimo il ricordo della grande impresa di due anni prima a New Orleans, il Super Bowl del post-11 settembre vinto contro i favoriti St.Louis Rams: e per Carolina si trattava della prima volta, con tutto il fervore e l’entusiasmo del caso, e con tifosi che provenivano comunque da una città e un circondario non benestanti per tradizione antica ma per recente sviluppo, anche sul piano bancario. Insomma, una combinazione che per motivi magari casuali era potente quando una Pittsburgh-Dallas, con le conseguenze descritte, ovvero un clima di richiesta e di cessione, nonché di vendita camuffata da chiacchiericcio, dilagante e frenetico come sempre.

A Houston in quei giorni faceva caldo anche quando faceva freddo. Come leggerete nel capitolo VI, è una città costruita in zona paludosa e sudaticcia, ha acque sotterranee e sepolte che provocano indici di umidità molto alti che si sentono anche in inverno. La giacchetta traditrice, quella che ti metti per precauzione uscendo di casa, diventa uno scafandro non appena ti allontani da un ambiente con aria condizionata e fai due passi. Le decine di TomBrady e TedyBruschi che giravano nel centro della città, nobilitato solo dal Toyota Center dei Rockets e dal MinuteMaid Park degli Astros, se ne accorgevano ad ogni falcata, riconoscendo negli sguardi affaticati dei vari JakeDelhomme e SteveSmith il medesimo desiderio di tornare presto al coperto, chiudere le spalle per un attimo di fronte all’immondo getto di aria condizionata glaciale e accomodarsi su un trespolo per una birra e per far passare il tempo. Tanto, su uno schermo dello sports bar qualcosa sul Super Bowl lo trovi sempre. E in quella settimana che portava alla partita di argomenti ce n’erano, ma qui si torna al discorso relativo ai biglietti: la bellezza delle analisi condotte dalle varie emittenti nel conto alla rovescia verso la partita si manifesta proprio nell’assoluta ininfluenza del nome delle squadre sul tipo di approfondimento. Che sia Jets v Giants o Panthers v Jaguars il trattamento è lo stesso, la cura è identica, l’esame è uguale. In studio, con diagrammi, schede, dimostrazioni su due piedi dei conduttori che replicano gesti e movimenti; dai vari luoghi di svago, con quelle inevitabili corrispondenze di colore tenute quasi sempre da ragazze di parlantina rapida; nel repertorio filmati, che ti ripropone tutto quel che vorresti portare a mente, dei Super Bowl passati e di quel che le due squadre hanno fatto nei mesi precedenti, per essere lì. E solo nelle trasmissioni locali di varia umanità compaiono personaggi del mondo dello spettacolo o di dubbia connessione con il football: per il resto è solo competenza, solo analisi, solo serietà, niente veline, niente comici, niente attrici, niente soubrette, niente politici a farsi pubblicità gratuita alle spalle dello sport. È anche per questo che andare al Super Bowl e a qualsiasi avvenimento sportivo americano di grossa taglia ha voluto sempre dire per l’autore di questo libro non solo un distacco fisico dall’Italia, ma anche una deliziosa separazione etica, un modo di respirare, di vedere e sentire sport gestito e raccontato da professionisti, senza alcuna delle pietose infiltrazioni che hanno cancerizzato le nostre trasmissioni sportive sui canali generalisti per renderle appetibili ad un pubblico che, di fatto, non ama realmente sport come il calcio, ma li segue perché – vedi Calciopoli, tra colpevolisti e innocentisti pilateschi del “lo facevano tutti” – permettono di esprimere opinioni gratuite e faziose senza essere esperti di nulla, E allora God Bless America, se dobbiamo scegliere.

God Bless Tom Brady, volendo. E certamente i tifosi dei New England Patriots sarebbero d’accordo, anche se i più blasfemi di essi potrebbero sostenere che lo stesso Brady è una sorta di divinità che non avrebbe alcuna utilità a benedire se stessa. Brady era, nel 2004, al suo secondo Super Bowl. Nel primo, quello del 2002, aveva condotto i Pats al field goal della vittoria pur partendo dalle proprie 17 yards con 1’21” da giocare e zero timeout a disposizione. Nessuno si sarebbe sorpreso se New England, una volta raggiunta dai Rams sul grande lancio di Kurt Warner per Ricky Proehl, si fosse accontentata di far scorrere il resto del tempo e avesse rimandato la decisione al supplementare. Da un lato, in un overtime, difficilmente la squadra sarebbe partita da posizione più arretrata delle 17, e dunque poteva essere saggio andarci; dall’altro, non vi era alcuna garanzia che il lancio della monetina avrebbe premiato New England, e in caso di palla ai Rams i rischi erano grandi, con una difesa che era stanca seppur reduce da una partita gestita in maniera splendida sia in campo sia dallo staff tecnico. A Houston, portando i suoi alla vittoria nell’ultimo drive, fece qualcosa di simile, in quella sera oscenamente umida a causa della chiusura del tetto dello stadio, per minaccia di pioggia, senza però che venisse messo in funzione l’impianto di aria condizionata. Ed era il medesimo stadio nel quale la sua squadra era stata in svantaggio nel punteggio per l’ultima volta in tutta la stagione, a 3’11” dalla fine del terzo quarto della gara del 23 novembre contro i Texans, vinta poi 23-20 al supplementare. Era stata la nona vittoria stagionale, sesta della serie di tredici consecutive con le quali i Pats chiusero trionfalmente la stagione dopo la seconda e ultima sconfitta, a Washington il 28 settembre. Una stagione condotta con tutto il cinismo di cui un gruppo gestito da coach Bill Belichick è capace. Il campionato infatti si era aperto con il tracollo (0-31) a Buffalo e le polemiche derivanti dalla cessione di un giocatore molto popolare negli spogliatoi, il safety Lawyer Milloy, cinque giorni prima della partita. Milloy, tagliato per dispute contrattuali con i Patriots, era stato immediatamente firmato dai Bills e nel prepartita era stato presentato per ultimo, sfoggiando una danza preparata per l’occasione, quasi un balletto macabro verso i suoi ex compagni di squadra. Passati allo staff di Buffalo alcuni dettagli – ma niente di straordinario – della strategia di New England, Milloy aveva poi giocato bene ma senza cambiare la gara, ed erano stati in generale tutti i Bills a dominare, compreso un bizzarro ritorno di intercetto per 37 yards da parte del defensive tackle Sam Adams, grande come una portaerei e lento come una chiatta, ma liberato verso la end zone da un paio di buoni blocchi. Ebbene, i Pats avevano giocato l’ultima partita di regular season proprio contro Buffalo, in casa, e avevano vinto dominando. 31-0, guarda caso. Una maniera non tanto sottile, da parte di Belichick, di sfoderare la sua vendetta.

A Houston, New England aveva trovato Carolina, una sorpresa, se si pensa che i Panthers erano squadra giovane, già arrivata alla finale di conference nella seconda stagione di esistenza, il 1996, ma crollati a una vittoria e 15 sconfitte ancora nel 2001, prima del 7-9 del 2002 e infine l’11-5 del 2003 coronato dalle vittorie nei playoff contro Dallas e a Philadelphia. Buona difesa con qualche problema nei defensive back, buona linea, un attacco che piaceva molto ai puristi perché sfoggiava un bel gioco di corsa suddiviso tra il veterano Stephen Davis, appena lasciato libero dai Washington Redskins, e DeShaun Foster, pistolotto che del titolare non aveva la medesima maturità nel leggere i blocchi, ma che in quel Super Bowl sfogò la sua energia in una corsa in touchdown di 33 yards al termine della quale si tuffò in end zone, con il braccio allungato in avanti e il corpo girato verso l’esterno del campo, a farsi immortalare per sempre. Fece bene: perché di quel fantastico ultimo quarto di gioco in cui le squadre segnarono complessivamente 37 dei loro 61 punti finali la corsa di Foster dopo un deciso taglio dietro la guardia e un’opposizione a due tentativi di placcaggio e l’infinita ricezione di Muhsin Muhammad, 85 yards lungo la medesima linea laterale sfuggendo al safety Eugene Wilson, restano due perle inferiori solo al drive di cui si parlava, quello di Brady, copia carbone di due anni prima.

29-29, dopo il pareggio di Proehl (ancora!) a 1’08” dal termine. Forse eccessivamente carico all’idea di ricacciare indietro i Pats, il kicker John Kasay spara il kickoff fuori dal campo. Non in fondo alla end zone, però, bensì lateralmente: grave errore, perché in questi casi la squadra che riceve può decidere di ripartire da un punto a 30 yards da quello del calcio, e così fece Belichick, ovviamente. Palla sulle 40 della metà campo di New England, che a quel punto per calciare un field goal con alte probabilità di riuscita doveva conquistare non più di 35-40 yards. E Brady non ebbe difficoltà ad eseguire il compito. Partendo sempre dalla shotgun, il 26enne Qb uscito da Michigan e trascurato nel draft da tutte le squadre per quasi sei turni completi, passò nell’ordine a Troy Brown per 13, 20 e 13 yards, anche se il secondo passaggio fu annullato perché il suo ricevitore aveva commesso interferenza offensiva, aveva cioè illegittimamente ostacolato un difensore a palla non ancora arrivata. Un altro lancio di 4 yards, per il tight end Daniel Graham, eccellente per le doti di bloccatore, e terzo tentativo con tre yards da conquistare con palla sulle 40 di Carolina. Dunque quel terzo tentativo sarebbe stato decisivo, e a 14” dalla fine con un solo timeout da chiamare non ci potevano essere molte scelte: prendere il primo down senza guadagno ulteriore voleva dire calciare un field goal dalle 36-37 yards, dunque un calcio di circa 53, considerando le 10 di end zone e le 6-7 rituali di arretramento dallo snap. Adam Vinatier, il kicker, purtroppo universalmente noto più per l’albero genealogico che comprendeva il capobanda del reggimento del famoso generale George Custer che non per le eccezionali doti tecniche, aveva quell’anno un massimo di 48 yards nei field goal segnati, ed aveva sbagliato l’unico da oltre 50 (esattamente 54) tentato. Troppo rischioso. Ci voleva dunque, sul terzo down, una conquista di almeno 10 yards, per posizionare palla sulle 30 di Carolina e calciare dunque un tentativo da 47, per non sentire troppo la pressione e non mettere sotto sforzo Vinatieri, di fronte oltretutto ad un ottimo special team dei Panthers che già gli aveva respinto un calcio nel secondo quarto.

Brady aveva due ricevitori dal lato destro, Deion Branch e ancora Brown. Branch era partito internamente, dirigendosi prima dritto dinanzi a sé poi piegando verso destra, come a puntare verso il piloncino rosso della end zone; Brown, più esterno, aveva solo fatto qualche passo in avanti, come a dare l’impressione di volersi girare e ricevere appena passata la linea del down, una cosiddetta traccia a uncino. Carolina, come confessarono gli allenatori della difesa a Bob McGinn per il suo libro, aveva scelto di non mandare verso Brady più dei quattro uomini di linea della difesa base 4-3, e tenere tutti gli altri dietro, a zona Cover 2, cioè con i cornerback a coprire la parte di campo tra la linea di scrimmage e le 10-12 yards e i safety responsabili delle due sezioni di campo alle loro spalle. In un caso come questo, in cui per precisa scelta vuoi evitare che l’avversario conquisti più di 10 yards e sei disposto a concederne meno, diventa fondamentale coprire prima la parte profonda della zona corta, e poi preoccuparti del lancio appena oltre la linea di scrimmage, meno pericoloso. Se il cornerback dal lato di Brown e Branch, il rookie Ricky Manning che aveva avuto splendidi playoff con tre intercetti di Donovan McNabb nella finale di conference, avesse fatto il suo dovere, Brady avrebbe dovuto rapidamente guardare altrove, dal lato sinistro; ma Manning perse la concentrazione, e vedendo il movimento di Brown avanzò per impedirgli la ricezione corta. Questo però permise a Branch, molto sveglio e consapevole della situazione, di continuare la traiettoria verso destra verso, sostanzialmente, il punto in cui avrebbe dovuto essere Manning in caso di situazione gestita meglio. Con Brady – ma in generale qualsiasi Qb di livello NFL – un errore pesante: scorgendo il varco, Brady lanciò a Branch, che ricevette un attimo prima dell’arrivo dello strong safety Mike Minter, impossibilitato ad allargarsi prima perché il suo compito era vigilare sul centro del campo. 17 yards di guadagno, palla sulle 23 dei Panthers e field goal dunque, ora, di 41 yards, agevole. E agevole fu, per la vittoria dei Patriots.

Quel che colpì, di quell’ultimo drive e della partita, fu la capacità di New England di tenere l’ottima difesa di Carolina lontana da Brady, che non subì nemmeno un sack. La linea era infatti composta, sostanzialmente, da reduci. Tre dei suoi cinque componenti non erano quelli che Belichick e il responsabile di reparto, Dante Scarnecchia, avevano previsto a inizio anno, una circostanza potenzialmente pericolosa in un settore in cui sono fondamentali la conoscenza reciproca e l’intesa, a partire dal centro che deve modificare un attimo prima della partenza della palla gli schemi di bloccaggio. Nel training camp, infatti, l’idea era quella di avere Matt Light come tackle sinistro, Mike Compton come guardia sinistra, Damien Woody come centro, Joe Andruzzi come guardia destra, Adrian Klemm come tackle destro. Ma dopo la prima giornata Woody si era fermato, sostituito come centro da Dan Koppen, tra l’altro suo successore nel ruolo all’università, Boston College. Dopo la seconda partita era sparito, per infortunio, Compton, messo nella lista detta injured reserve e dunque, secondo le norme NFL, impossibilitato a tornare in campo per tutto il resto dell’annata. Al suo posto per la terza partita era andato Andruzzi, con Woody nel ruolo di guardia destra. Ma nella gara successiva c’era stato un ulteriore modifica: fuori Klemm, spostato poi in injured reserve a metà ottobre e rimpiazzato da Tom Asworth, e fuori Woody, con Russ Hochstein, un tortello del Nebraska dalla concreta solidità, guardia sinistra e Andruzzi di nuovo nel suo posto delle fragole, la guardia destra. Infine, dalla quinta partita, lo schieramento definitivo: da sinistra a destra, Light, Woody, Koppen, Andruzzi, Asworth. Non casualmente, la serie di vittorie che avrebbe poi toccato quota 15 era iniziata quel giorno. Ma in realtà c’era stato un altro rivolgimento: Woody si era infortunato nella prima partita di playoff contro Tennessee ed era a sua volta terminato in IR, con Hochstein a prendere il suo posto sia contro Indianapolis nella finale di conference sia nel Super Bowl. Era andata benissimo, come si è visto: poca pressione su Brady e dignitosi buchi aperti per le corse di Antowain Smith e Kevin Faulk, contro il quartetto potenzialmente dilagante formato dai tackle Kris Jenkins e Brentson Buckner e dai defensive end Julius Peppers e Mike Rucker. Ma l’ultimo snap della partita, quello che l’aveva vinta con il field goal di Vinatieri, non l’aveva effettuato Koppen. Negli special team quel gesto viene compiuto dal long snapper, che non coincide ormai più con il centro: è un giocatore non necessariamente potente e imponente, ma abile nella difficile arte di sparare il pallone, tra le proprie gambe, indietro di 6-7 yards con precisione mentre lo special team difensivo cerca di sommergerlo, anche se con il cambiamento delle regole non può ora esserci nessun uomo direttamente di fronte al long snapper, e se la sua posizione è entro l’ampiezza delle spalle dello snapper tra i due deve esserci almeno una yard di separazione frontale. Ovvio: il LS effettua tutte le sue operazioni con il viso quasi a contatto con il terreno, guardando dietro di sé, e non avrebbe mai il tempo di scattare e proteggersi se l’avversario fosse vicino come lo è normalmente. Come accade a tanti giocatori in questi ruoli, il LS di solito non si nota, e allora vuol dire che sta facendo il suo dovere. Ma basta una sparata errata del pallone per precisione o velocità e il ritmo del punter, o del kicker con l’holder che gli tiene ferma la palla, si interrompe, con conseguenze potenzialmente disastrose.

Quella sera a Houston non accadde nulla di tutto ciò, e fu un enorme sollievo per Belichick e il responsabile degli special team, Brad Seely. Perché il long snapper dei Patriots era un giocatore di 38 anni che era tornato su un campo da football solo da un mese e mezzo, dopo due stagioni intere in cui aveva lasciato lo sport per dedicarsi alla carriera di insegnante di religione in Louisiana, dove era nato e dove aveva fatto il college a Louisiana State, nel ruolo però di tight end. Brian Kinchen, questo il suo nome, aveva giocato TE anche nella NFL per 13 stagioni, con 160 ricezioni (55 solo con Baltimore nel 1996) per 1648 yards e sette touchdown, ma aveva iniziato anche a fare gli snap lunghi una volta passato da Miami a Cleveland nel 1991. Il suo coach, ai Browns, era stato proprio Belichik, che aveva intravisto in lui le doti giuste di forza fisica, equilibrio, solidità, mani sicure e agilità. Prima di darsi all’insegnamento, Kinchen aveva giocato due anni proprio con i Panthers, e lì il suo responsabile di reparto si chiamava Brad Seely. Fu dalla miscela delle conoscenze e delle memorie congiunte di Belichick e Seely che a metà dicembre 2003, quando una settimana dopo il titolare Lonie Paxton anche il suo sostituto Sean McDermott finì ko, venne fuori l’idea di chiedere a Kinchen se se la sentisse di rimettersi casco e spalliera e provare a dare una mano. Se la sentiva sì: nei precedenti 13 anni di carriera NFL aveva giocato nei playoff solo un volta, nel 1994 nella sconfitta di Cleveland contro Pittsburgh, e inoltre, come disse alla vigilia del Super Bowl, «se questa partita fosse arrivata a metà della mia prima carriera l’avrei trattata con più freddezza, ma adesso, dopo essere tornato dopo due anni e mezzo in cui proprio al football non avevo più pensato, per me vale molto di più. E penso a mio fratello Todd: nel 1999 fece il Super Bowl con Atlanta ma finì male. Qui spero proprio che sia diverso».

Lo fu, anche se con un retroscena esilarante e potenzialmente tremendo: nel brunch prima della partita, infatti, Kinchen fece una cosa che non aveva mai fatto in vita sua, ovvero si ferì alla mano con un coltello mentre spalmava burro su un toast. All’arrivo allo stadio Belichick venne informato dell’accaduto e pensò a una battuta, tanto che – lo riferisce McGinn – rimproverò il massaggiatore dicendogli «siamo al Super Bowl, non è tempo di scherzare», poi capì che era tutto vero e reagì con prevedibile durezza, intimando a Kinchen, che non era sicuro di potercela fare e non voleva danneggiare la squadra giocando in condizioni precarie, di vestirsi e medicarsi anche con un laccio elastico che bloccasse la circolazione per i pochi secondi dedicati allo snap. Purché giocasse. E quando il calcio di Vinatieri passò tra i pali per la vittoria dei Pats, di Kinchen non si accorse nessuno se non la madre e la moglie, che sapevano come festeggiare in quanto entrambe ex cheerleader di Louisiana State. Il resto del mondo era concentrato su Brady, su Belichick, su Bruschi, su Branch. Meglio così. Voleva dire che il long snapper, l’uomo che si guadagna il pane guardandosi tra le gambe, aveva fatto il suo dovere.

Estratto del libro ‘Football & Texas – Storie americane’, di Roberto Gotta (Indiscreto, 2011). In vendita a 4,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, Kobo di Mondadori, e iPad-iPhone, mentre per tutti gli altri tipi di eReader il download può essere effettuato dalla piattaforma BookRepublic. La versione cartacea costa invece 18 euro ed è in vendita presso Amazon, Hoepli e altre librerie italiane. Distributore in esclusiva: Distribook srl

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