La leggenda del Napoli perseguitato

9 Gennaio 2019 di Stefano Olivari

Complice la sosta della serie A, in cui non c’è sostanzialmente niente da scrivere se non inverosimili scenari di mercato, il caso Koulibaly ha invaso giornali e televisioni minacciando di creare un precedente che con la scusa del razzismo qualunque furbo potrebbe sfruttare: chi si ricorda dei giocatori degli anni Ottanta che stramazzavano a terra per un petardo scoppiato a duecento metri di distanza? Nella sostanza il Napoli ha informalmente risposto a Salvini contrario alla chiusura degli stadi, ma anche all’interruzione delle partite, e favorevole alla punizione dei singoli colpevoli, facendo propria la linea annunciata a caldo da Ancelotti: in presenza di un clima e di comportamenti simili a quelli di San Siro, se l’arbitro di turno non interromperà la partita allora saranno gli stessi giocatori del Napoli a fermarsi in modo che fischiatori e vomitatori di insulti riflettano per qualche minuto. Nella sostanza, Ancelotti  e il Napoli si arrogano il diritto di decidere, in base alla propria sensibilità (o convenienza), di stabilire quando c’è il clima giusto per giocare e quando no. Sono delicati, credevano di essersi iscritti al Masters di Augusta e invece si ritrovano al Colosseo. 

Come se il Napoli fosse un perseguitato speciale, unica squadra davvero nel mirino dei cattivi al contrario delle squadre del Nord e anche delle altre del Sud. Come se Koulibaly fosse l’unico giocatore nero oggetto di un trattamento incivile, senza andare sullo ‘straniero’ basti ricordare il trattamento riservato a Balotelli anche dagli stessi sedicenti tifosi della Nazionale… Ma non nascondiamoci, quella del ‘nero’ è palesemente una scusa visto che i calciatori neri li hanno tutti mentre di Napoli ce n’è uno solo. Il problema è che esiste nei media napoletani un’impostazione culturale vittimistica, che parte da lontanissimo (non vogliamo dire dal Regno delle Due Sicilie, ma quasi) e che la società ovviamente cavalca, un’impostazione che nessuno ha il coraggio di mettere in discussione per non passare per anti-napoletano o per meri motivi di marketing editoriale. Del resto veniamo da giorni di Giorgina santa e martire, di Nainggolan che si allena addirittura di sera, di Gattuso che gode della piena fiducia, quindi in questo senso il vecchio teorema di Berlusconi (“Il tifoso vuole leggere sulla sua squadra solo cose positive”) è applicato a tutti.

Ma il Napoli è comunque un caso a parte, perché è l’unico a tirare fuori questa lagna del razzismo territoriale quando il successo del calcio, piaccia o no, si basa proprio sulla territorialità e sull’appartenenza, noi contro di loro, loro contro di noi. Non è burraco, non è vela, non è uncinetto. Stiamo dicendo questo nel 2019, quando un normale software di riconoscimento facciale permetterebbe di allontanare per sempre dagli stadi gli ululatori, che non risiedono soltanto nelle curve, creando quindi impianti che permetterebbero ad Albiol e Insigne di esprimere appieno le proprie potenzialità. Chiudiamo con una domanda cattiva, che forse è anche una cattiva domanda: perché tutti in Italia ce l’hanno o ce l’avrebbero con il Napoli e Napoli?

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