Cold War, scappare sì ma dove

2 Gennaio 2019 di Stefano Olivari

Abbiamo guardato al cinema Cold War in omaggio a un’epoca della nostra vita, realmente esistita, in cui guardavamo film polacchi sottotitolati in francese. Anche se l’opera di Pawel Pawlikowski è doppiata in italiano ed è sottotitolata soltanto per i canti in polacco (…). È comunque in bianco e nero, un critico scriverebbe ‘un elegante bianco e nero’, ed ha i primi minuti che se visti sul televisore di casa porterebbero direttamente su Pedullà o un qualsiasi Suns-Hawks, per non dire ‘Il codice Ausilio’. Invece l’educazione piccolo borghese, quella che non ti fa alzare dal posto per non disturbare, a qualcosa serve perché Cold War se non è un capolavoro è un film bellissimo che mette insieme una storia sentimentale, la storia propriamente detta (fra Polonia e Parigi, dal 1949 al 1964) e riflessioni soltanto suggerite, come nell’arte vera, sul concetto di patria.

La vicenda non è invenzione pura, in parte prende spunto dalla vite dei genitori del regista del notevole Ida, con protagonisti il musicista Wiktor e la sua allieva (all’inizio) Zula. Lui viene incaricato dal governo polacco, con il comunismo filo-staliniano già stabilmente al potere, di formare una compagnia di canti e balli tradizionali reclutando talenti nelle campagne della Polonia profonda. Uno di questi talenti è appunto Zula, che fin da subito è l’anima popolare della coppia, che nella musica vede il mezzo per sfuggire a un passato terribile (ha ammazzato il padre, fra l’altro), mentre Wiktor è in sostanza un borghese che trova in questa operazione un modo per ricavarsi una nicchia in un paese che non apprezza né come élite né come popolo. Significative le scene dello pseudo-casting, con i contadini studiati come se fossero insetti (tanti grandi reportage, da Pasolini in giù, hanno del resto questa impostazione del borghese affascinato da ciò che non conosce). La compagnia ha un grande successo e si esibisce in tutti i paesi comunisti, una volta anche di fronte a Stalin, con Zula che ne è la stella e Wiktor che dirige l’orchestra pensando alla fuga in un Occidente che immagina più affine a lui. L’opportunità si presenta a Berlino: lui scappa, con il muro ancora da costruire era più facile, lei all’ultimo momento cambia idea. Non perché non lo ami o perché sia comunista, ma solo perché sente che la Polonia è il suo posto. Scappare sì, ma dove? La citazione sorge spontanea.

Wiktor emigra a Parigi, dove entra nel giro musicale, e dopo qualche anno riesce a ritrovare Zula che lo raggiunge in Francia con un escamotage (cioè sposando un italiano e lasciando la Polonia legalmente). Non stiamo come al solito a raccontare tutto un film che consigliamo, e andiamo direttamente al senso che è secondo noi quello dell’appartenenza. Che può essere più forte dell’amore e della convenienza personale, come si vede soprattutto in Zula, ma spesso è inaccettabile. Wiktor e Zula possono anche detestare la Polonia degli anni Cinquanta, ma questo non li trasforma in francesi nemmeno quando in Francia raggiungono un discreto successo: lei lo percepisce meglio di lui, che però ci arriverà lo stesso. La sottostoria è il nazionalismo retorico utilizzato da ogni tipo di regime e anche dalle democrazie, quando la risposta è nella testa e nel cuore dei singoli. Quello dei due protagonisti è un sentimento, una percezione, soprattutto una non appartenenza ad altri contesti. Più facile capire ciò che non si è. La soluzione non è in ogni caso farsi piacere il posto in cui si è nati… Detto questo, il grande pregio dei film polacchi, e ancor di più di quelli franco-polacchi come Cold War, è quello di proporre come protagoniste delle fighe storiche. E la tormentata Joanna Kulig non fa eccezione.

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