Mara Canà e il segreto dell’Allenatore nel Pallone

27 Novembre 2018 di Indiscreto

Non c’è nulla di male o di riduttivo nell’affermare che Giuliana Calandra per la maggior parte degli italiani sia stata soprattutto la Mara Canà dell’Allenatore nel Pallone. Il 99,9% di noi non sarà ricordato nemmeno per questo… L’attrice da poco morta, che nella sua carriera ha recitato per molti grandi (Ferreri, Lattuada, Monicelli, Risi, Steno…), vivendo la commedia all’italiana a vari livelli, è stata fra le tante cose protagonista di una delle scene più agghiaccianti nella storia del nostro cinema (è la scrittrice assassinata in Profondo Rosso) e presentatrice del Festival di Sanremo nel 1961, anche se nell’ultima serata fu sostituita da Alberto Lionello: un’edizione clamorosa vinta da Betty Curtis e Luciano Tajoli con Al di là, davanti ad Adriano Celentano-Little Tony con 24mila baci e dove fra i partecipanti c’erano Milva, Mina, Gino Paoli, Gaber, Sergio Bruni, Claudio Villa, Umberto Bindi e tanti altri artisti durati decenni… Meglio prima? In questo caso sì, ma nel caso dell’Allenatore nel Pallone bisogna chiedersi come mai un brutto film sia diventato oggetto di culto e sia per noi impossibile staccarcene quando lo incrociamo, pur conoscendo ogni battuta a memoria. Qual è dunque il segreto di questo film?

Detto che all’epoca, cioè nel 1984, non fu un grande successo commerciale e nemmeno al top fra i mille film con Lino Banfi (quelli sì rimasti inguardabili), il suo successo televisivo e intergenerazionale si deve soprattutto al fatto che restituisca alla perfezione lo spirito calcistico del tempo. Non a caso è un cult molto più maschile che femminile, anzi poche donne davvero comprendono quest’ossessione per il procuratore Giginho o per Crisantemi. E se nel 1984 dello spirito del 1984 importava zero, con gli anni abbiamo rivalutato quel calcio ancora italianissimo ma che si stava aprendo al mondo e dove in ogni caso i migliori giocatori del pianeta sognavano di giocare. Il Maradona di 24 anni che dal Barcellona viene a giocare in una squadra che la stagione prima è arrivata undicesima equivale a Messi al Sassuolo. Un calcio in cui in 9 stagioni, dal 1982 al 1991, vinsero lo scudetto 7 club diversi… Un calcio ancora ingenuo, di cui si parlava moltissimo pur guardandolo pochissimo visto che il posticipo su Telepiù sarebbe arrivato soltanto nel 1993. Un calcio pieno di personaggi fortemente caratterizzati, anche senza la retorica della bandiere.

Un calcio iperpresente nel film e non soltanto sullo sfondo. Dalle comparsate dei personaggi veri (Pruzzo, Chierico, Nando Martellini, Ancelotti, Damiani, Giampiero Galeazzi, Gianfranco Giubilo, Fabrizio Maffei, Zico, Biscardi, Spinosi, Liedholm, Scarnecchia, Santarini, oltre ovviamente a Picchio De Sisti) alle situazioni che dalla realtà traevano spunto: se Aristoteles era ispirato al Luis Silvio oggetto misterioso della Pistoiese, il calciomercato lo era stato da Gianni Di Marzio alla ricerca di stranieri per il suo neo promosso Catania nell’estate 1983 e da un casuale incontro del regista, Sergio Martino, con un Moggi che stava andando in Brasile a trattare Junior per il Torino. Veri anche gli stadi: il Maracanà, il Ballarin di San Benedetto del Tronto e il Flaminio. Verissimo quel clima un po’ cialtrone che all’epoca non si nascondeva dietro cariche come CEO, CFO e marketing manager. Qualcosa che va molto al di là dell’effetto nostalgia, diversamente quel film sarebbe di culto soltanto per i cinquantenni. L’ultimo calcio italiano dal volto umano, come prova il fallimentare sequel (con molti attori del 1984, Calandra compresa) del 2008, di cui si è giustamente sempre parlato poco: eppure il successo sembrava assicurato e decine di calciatori famosi avevano fatto a gara per essere presenti. Sempre un brutto film, basato su un calcio magari migliore ma che non ci appartiene.

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