La vittoria di Eugenio Bersellini

6 Novembre 2018 di Stefano Olivari

Una bellissima serata a parlare dell’Inter di Eugenio Bersellini insieme ad alcuni giocatori di quella squadra e alle figlie dell’allenatore scomparso un anno fa ha confermato un nostro pregiudizio. La storia del calcio è piena di squadre vincenti, anche perché necessariamente qualcuno che vince ci deve essere sempre, e tutte queste squadre hanno avuto una logica, con giocatori nella stessa direzione o perché intelligenti o perché ben guidati. Quasi nessuna però era o è fatta da amici, nel senso di amici che siano rimasti tali a prescindere dal calcio e dal post-calcio. Ecco, questa Inter era e rimane fatta di amici. Ed è rimasta nel cuore di tanti proprio per questo, pur essendo molto inferiore rispetto a quella degli anni Sessanta, a quella di Trapattoni e a quella di Mancini-Mourinho: squadre che hanno vinto, ma dove con qualche eccezione i rapporti umani non erano al massimo e con l’avanzare dell’età sono addirittura peggiorati.

Al Bootleg di Milano, nella serata ‘L’Inter del sergente di ferro’ organizzata da Alessandro Polenghi,  ci siamo limitati ad animare con qualche domanda l’incontro con Ivano Bordon, Graziano Bini, Alessandro Scanziani ed Evaristo Beccalossi, oltre che con Laura e Barbara Bersellini. Incontro che è partito dal recente libro a più voci L’Inter ha le ali, per poi toccare qualsiasi argomento calcistico e paracalcistico possibile, fra presente e passato. Per noi qualche ora di splendida libera uscita, per loro una consuetudine visto che almeno una volta al mese si ritrovano fisicamente a cena (del gruppo fanno parte anche Oriali, Muraro, Pasinato, Canuti, Baresi e Marini, più Altobelli quando non è in Qatar) e ogni giorno animano una chat che con un eufemismo potremmo definire senza filtro.

Quella squadra, che Bersellini allenò dal 1977 al 1982 vincendo uno scudetto, due Coppe Italia, arrivando alla semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid e comportandosi onorevolmente in un contesto in cui altre squadre italiane, non solo la Juventus, erano più attrezzate, è stata l’ultima tutta italiana a vincere il campionato e questo è chiaro visto che solo nell’estate 1980 sarebbero state riaperte le frontiere. Ma era anche quella che più di tutte le altre puntava su giocatori cresciuti nel vivaio: dei 17 della rosa 1979-80, scesi effettivamente in campo in campionato o in coppa, ben 11 venivano dal settore giovanile dell’Inter. Bordon, Bini, Baresi, Canuti, Occhipinti, Bergomi (il giovanissimo Zio esordì contro la Juventus in Coppa Italia), Pancheri Marini, Oriali, Ambu e Muraro. Cipollini, Mozzini e Beccalossi non erano cresciuti nell’Inter ma sono comunque lombardi, così che gli ‘stranieri’ dell’epoca erano Pasinato, Caso e Altobelli. Sentire Bini che al telefono con Canuti si lamentava del suo pacco (“Te vegnet no?”, in italiano “Ma non vieni?”) ci ha aperto il cuore, anche se non abbiamo mai parlato in dialetto in vita nostra, e fatto sognare un calcio in cui chi va in campo non sia una foca ammaestrata, magari bravissima e miliardaria, ma rappresenti qualcosa.

Linguaggio comune e ricordi comuni, più volte riproposti ma per noi sempre originali e interessanti. Dalla durezza dei metodi di Bersellini (“Ma sempre meno di quelli del suo vice Onesti”, come ha osservato Bordon, memore dell’epoca in cui i portieri svolgevano quasi lo stesso allenamento dei giocatori di movimento: situazione oggi inimmaginabile) ai ritiri praticamente perenni, sei giorni alla settimana su sette molto spesso, mandando il capitano Bini a trattare per uno sconto (“Ma Bersellini mi diceva di parlargli di tutto tranne che del ritiro”, ha ricordato il libero). Dalle certe fissazioni di una volta (“Una volta in Norvegia, con un freddo polare, il mister ci impose di giocare senza calzamaglia per far vedere ai norvegesi che eravamo come loro e non avevamo paura – ha ricordato Beccalossi -, ma all’entrata in campo scoprimmo che i norvegesi avevano tutti calzamaglia e guanti”) all’amicizia cementata da tante ore di sana noia senza possibilità di evasioni tecnologiche (“Nel calcio di oggi Bersellini proverebbe a ritirare gli smartphone al mattino – ha osservato Scanziani – per restuituirli la sera, ma non credo glielo lascerebbero fare”). Dalla onesta coscienza di avere una cilindrata inferiore ad altri (“Ma con Platini nel 1980 sarebbe cambiato tutto – ha detto Bini -, e avremmo fatto il salto di qualità definitivo. Addirittura giocammo una partita il cui incasso tutti sapevamo che sarebbe andato a Platini, ma poi per motivi mai chiariti arrivò Prohaska”) all’ammirazione per un allenatore che non vendeva fumo (“Fui felicissimo di ritrovarlo alla Sampdoria”, dice Bordon) e che spesso veniva trattato con sufficienza dalla stampa. In realtà Bersellini era assolutamente all’avanguardia e la sua Inter aveva una consistenza atletica simile alle squadre di oggi, è soltanto che non era stato battezzato come profeta del calcio.

E poi tante altre storie, qualcuna raccontata e altre non raccontabili (nelle trasferte con Roma e Lazio la squadra era ospite fissa di Franco Califano, grande tifoso nerazzurro, con annessi e connessi) nemmeno a decenni di distanza. Ma tornando al discorso dell’amicizia, per conoscenza personale di molti dei protagonisti confermiamo che l’Inter di Bersellini non è nemmeno paragonabile a Inter più forti, dove magari c’erano legami fra due o tre giocatori, o magari clan più allargati, ma non un ambiente unico in cui tutti avevano trovato il loro posto. Discorso che va al di là delle normali antipatie in un posto di lavoro, da Mazzola-Facchetti a Simeone-Ronaldo. Nel presente i media raccontano sempre la favola della famiglia del Mulino Bianco, tutti i gruppi di tutti club sono pieni di amore e di letizia, ma in realtà solo il tempo riesce a dare la dimensione dell’amicizia. La vera vittoria di Bersellini è stata questa Inter di ragazzi sessantenni.

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