Gerasimenko e Cantù a zero

14 Novembre 2018 di Indiscreto

L’era Gerasimenko a Cantù è finita, come annunciato dallo stesso imprenditore russo. La sua azienda principale è sotto sequestro a Volgograd e lui da mesi non è ben chiaro dove sia fisicamente (pare a Cipro, ma non gli conviene essere troppo preciso), latitante in vari sensi, con l’agenzia delle Entrate russa alle calcagna e l’acciaieria fallita. Così ha deciso di chiudere un’avventura iniziata tre anni fa con l’acquisto della maggioranza delle azioni da Anna Cremascoli e che sul piano sportivo non è stata un disastro (del resto per retrocedere nella serie A di oggi bisogna quasi fare apposta, comunque la scorsa stagione qualificazione ai playoff), mettendo sul mercato il club. Che chissà come farà a chiudere la stagione, in assenza di nuovi salvatori. Ma per l’orazione funebre è presto.

Di questo e degli aspetti cestistici scriverà con dovizia di particolari Oscar Eleni. Noi volevamo sottolineare un’altra cosa, che riguarda tutto lo sport italiano: uno dei club più gloriosi, due Coppe dei Campioni e tutto il resto, è sul mercato a costo zero. Anche se tanto zero non è, visti i debiti e più concretamente le pendenze verso i giocatori del presente e del passato, senza contare il fatto che non esiste più un campo di casa (del nuovo Pianella esiste solo il terreno, che non è comunque proprietà del club ma di Gerasimenko, e si continuerà chissà per quanto a giocare a Desio). Considerando che una stagione dignitosa si può fare con meno di un milione di budget per la prima squadra (Cremona il primo esempio che viene in mente, ma mezza serie A viaggia su queste cifre), ci risultano incomprensibili diverse cose.

La prima è come mai i giocatori, per quanto alcuni (non solo di quest’anno) arrivino con la nomea di scappati di casa, accettino di venire in un contesto in cui probabilmente non verranno pagati. Anche se non sappiamo quanti dei 16 club in cui ha giocato negli ultimi 6 anni (!!!) abbiano davvero dato dei soldi a Tony Mitchell, che per l’Italia di oggi è comunque un fenomeno. La seconda è come mai in una zona che rimane molto ricca e piena di gente con voglia di fare, non proprio il territorio di caccia dei Cinque Stelle, non si trovino imprenditori locali, riuniti magari sotto la guida di un uomo immagine (mettiamo Recalcati, che abita lì) che mettano quel poco che serve per una stagione di serie A: un milione per una stagione dignitosa, il nostro dentista ha appena comprato un’auto che costa un decimo di questa cifra. La terza è che cosa importi a gente non locale, discorso che vale a Cantù e in altre parti d’Italia, di perdere soldi con pallacanestro di qualità infima, che interessa giusto ai tifosi della squadra, come se in Jefferson e Gaines ci fosse lo spirito di Lienhard e Marzorati. La quarta è, in generale, che lo sport professionistico fatto in perdita non ha più ragione di esistere, se non per riciclare soldi e fare da vetrina per certe manie di grandezza, come il rischio di fallire dalla sera alla mattina. Certo questo significa che tolta la Serie A di calcio e pochissimo altro tutto il resto dovrebbe essere ripensato: a chi importa di vedere cinque sconosciuti con la maglia di Cantù, Pistoia o Pesaro? A Cantù, Pistoia e Pesaro ancora a qualcuno, ma non ancora per molto.

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