Gli undici giorni del Trap, se ad Atene avesse giocato Marocchino

12 Ottobre 2018 di Stefano Olivari

Quella del 1983 contro l’Amburgo non è stata l’unica finale di Coppa dei Campioni-Champions League persa dalla Juventus e nemmeno l’unica in cui la squadra bianconera partiva favorita alla vigilia (lo era anche contro l’Ajax 1996, partita poi vinta ai rigori, e il Borussia Dortmund 1997), ma è stata senz’altro la più amara visto che si sta parlando di una delle Juventus più forti di sempre e, dettaglio su cui meditare, più apprezzate anche dai non juventini. Il tifo contro esisteva, ma non aveva certo l’intensità di oggi. Merito di tanti personaggi ‘condivisi’ come i sei campioni del mondo 1982, Platini, Boniek e lo stesso trasversalissimo, anche prima di girare per tanti altri club, Giovanni Trapattoni. Merito anche di un calcio italiano in cui gli altri club erano meno attrezzati della Juventus, ma non sudditi come avviene ai giorni nostri. Per questo ‘Gli undici giorni del Trap’, il libro appena uscito che Enzo D’Orsi ha scritto per Edizioni In Contropiede, tiene inchiodati alle pagine dalla prima all’ultima riga sia il lettore juventino sia quello che ancora esulta rivedendo il gol di Magath.

Lo schema è spiegato nella prefazione di Roberto Beccantini e si rifà al bellissimo ‘Maledetto United’ di David Peace. Se il diario di Brian Clough al Leeds prendeva 44 giorni, nel libro di D’Orsi i giorni sono soltanto 11: dall’ultima giornata di campionato contro il Genoa alla finale di Atene, con avvenimenti e pensieri di un Trapattoni poco letterario e molto reale. Materia che l’autore, all’epoca inviato al seguito della Juventus per il Corriere dello Sport, conosce alla perfezione e che proprio per questo riesce a rendere affascinante anche agli occhi di chi pensava di sapere tutto. Questo Trapattoni che parla in prima persona è un Trapattoni amaro, che da uomo di calcio sente subito che l’ottimismo esagerato dell’ambiente, addirittura anche dello scaramantico Boniperti, è il primo nemico da combattere. Un Trapattoni umanamente apprezzato dall’autore, ma sul piano tattico di una cilindrata (leggiamo fra le righe, ma lo pensiamo anche noi) nettamente inferiore ad Happel.

La Roma ha appena vinto lo scudetto, ma si può anche dire che quella super-Juventus concentrata sull’Europa lo abbia buttato, con i reduci del Mondiale che si sono impegnanti a giorni alterni. In particolare Trapattoni ce l’ha con Paolo Rossi, che sospetta (a ragione) stia già vivendo di rendita su quella settimana spagnola, e sta meditando seriamente di tenerlo in panchina nella sfida contro il santone Happel, uno che le squadre e gli allenatori italiani li ha sempre impacchettati anche affrontandoli con squadre più deboli: fra i tanti confronti vinti anche quello di cinque anni prima con il Bruges, nella semifinale di Coppa dei Campioni proprio contro la Juve di Trapattoni. La mossa che l’allenatore bianconero ha nella testa è quella di rilanciare dal primo minuto Marocchino, che umanamente lo ha deluso per come vive fuori dal campo ma che rimane uno con fisico e tecnica di primo livello, per allargare il campo tenendo lui e Boniek sulle fasce, con Platini dietro a un Bettega che chiuderà la sua vita bianconera tornando prima punta. Un’idea ancora più estrema sarebbe anche quella di far giocare Furino, uno dei pochi ad avvertire le vibrazioni negative, ma Bonini sembra in forma e Tardelli è intoccabile, inoltre Platini non riesce a proprio a reggere il vecchio capitano (ricambiato): da quando gli hanno tolto Furino di torno è miracolosamente sparita anche la pubalgia.

Il racconto degli eventi di avvicinamento ad Atene è vibrante e da giornalista vero, fra notizie destabilizzanti di calciomercato (come la trattativa per Bordon, che fa infuriare Zoff: poi arriverà Tacconi), allenamenti con segnali contrastanti, viaggi stancanti (tre giorni prima di Atene la Polonia costringe Boniek a giocare in nazionale), una tristissima amichevole persa con il Vicenza e la pressione di chiunque incontri Trapattoni per strada. La parte che troviamo storicamente straordinaria del libro, anche per l’accuratezza dei riferimenti, è quella delle elucubrazioni tattiche di Trapattoni e del suo vice Romolo Bizzotto, davvero indicative della mentalità prevalente nel calcio italiano di quegli anni. L’ossessione per la mossa vincente, il pensiero di bloccare la fonte del gioco avversario, lo studio maniacale delle caratteristiche dei singoli: una specie di partita a scacchi con l’allenatore avversario che spesso mandava fuori strada anche i guru della panchina e faceva giocare le grandi squadre in maniera non troppo diversa dalle piccole.

Venendo all’Amburgo, squadra che ha appena rivinto la Bundesliga con un solo vero campione, cioè Kaltz, e un attaccante acciaccato come Hrubesch, Trapattoni individua abbastanza facilmente che l’uomo chiave sarà l’eclettico Rolff: la mossa scontata è che Happel lo metta a distruggere il gioco di Platini, ma forse è troppo scontata. Da qui partono una serie di considerazioni e di analisi delle alternative che davvero spiegano perfettamente quel calcio. Assente per squalifica l’elegante Hartwig, di sicuro a centrocampo Happel si inventerà qualcosa con Groh. Attenzione a Magath, anche se è mezzo infortunato. Alla fine Rolff davvero marcherà Platini, ma la vera grande mossa di Happel sarà quella di spostare Milewski sulla fascia destra del’Amburgo, trascinandosi dietro Gentile e quindi lasciando scoperta quella destra della Juventus: da quella parte l’Amburgo creerà tante altre occasioni da gol, anche se poi si ricorda solo lo strano tiro di Magath, perso da Bonini e con Zoff spettatore. Quanto a Paolo Rossi, il Trapattoni allenatore lo vorrebbe fuori ma il Trapattoni uomo mediatico e anche aziendalista lo schiera dall’inizio, sostituendolo con Marocchino soltanto negli ultimi 35 minuti quando l’Amburgo è ormai padrone del campo e il resto della Juve non sembra avere una reazione decente. Poi se Bettega avesse segnato, nell’occasione avuta un minuto prima del gol di Magath, tutto sarebbe cambiato, ma è inutile riflettere sulla specificità del calcio.

‘Gli undici giorni del Trap’ non raccontano una partita, sia pure famosissima, ma un’epoca irripetibile, quella di un calcio già molto presente in televisione ma che ancora sembrava una conquista, con ogni partita meritevole di essere ricordata. ‘Maledetto United’ si conclude con l’esonero di Clough, mentre Trapattoni sopravviverà alla sconfitta e vincerà ancora tanto con la Juventus e altrove, ma Atene rimane un qualcosa che va al di là della sconfitta in una finale. Secondo l’autore la relativa maledizione europea della Juventus è iniziata ad Atene, non dieci anni prima contro un Ajax inarrivabile: le vittorie, comprese due Coppe dei Campioni-Champions poi effettivamente alzate, non sono mancate ma la certezza è che in Europa la Juventus, qualsiasi Juventus, abbia sempre fatto meno di questo fosse nel suo potenziale. Il mitico DNA, che ci si creda o no, vale sia per gli scudetti sia per le finali europee.

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