Kaepernick e la Nike contro mezza America

6 Settembre 2018 di Stefano Olivari

La pubblicità della Nike incentrata su Colin Kaepernick sta facendo parlare molto di sé, il che non significa che farà vendere più scarpe. Di sicuro stasera gli americani e forse anche noi (diretta alle 2.20 su Dazn) la vedranno-vedremo nell’opener fra Atlanta Falcons e Philadelphia Eagles. Il motivo del riscontro mediatico, fra hashtag contrapposti (#JustDoIt contro #BoycottNike e #Nikeboycott) è il solito: qualunque personaggio pubblico che possa essere utilizzato in chiave anti-Trump diventa il beniamino del 90% dei giornalisti americani, con i giornalisti europei, non solo la Botteri, a copiare e poi eventualmente a dare la colpa agli hacker russi se il popolo non capisce e l’economia va bene.

Kaepernick è un discreto quarterback, attualmente senza contratto ma con alle spalle tre stagioni ai San Francisco 49ers, di cui almeno tre molto buone (come molti italiani della nostra età, siamo simpatizzanti dei 49ers), giocando da protagonista un Super Bowl perso di poco contro i Ravens. Non un cane, non un campione. Ma un giocatore da media NFL che però dopo essere stato tagliato dai 49ers non ha più trovato squadra e nemmeno vere offerte, attribuendo la sua disoccupazione a una sorta di ostracismo da parte dei proprietari NFL che gli imputerebbero di avere inventato il kneeling, cioè l’inginocchiamento durante l’esecuzione dell’inno nazionale, per prendere le distanze dalle violenza e della polizia ed in generale dalle discriminazioni razziali. Kaepernick ha anche fatto causa alla NFL, uno dei cui principali sponsor è proprio la Nike. Che fra l’altro a Kaepernick è legata dal 2011 e non da ieri.

Comportamento, il kneeling, copiato da molti colleghi, quasi tutti neri, che chiaramente non è piaciuto a Trump in quanto oltraggio alla bandiera (e a lui stesso) e a qualche suo sostenitore, ma soprattutto non è piaciuto al tifoso medio NFL, tendenzialmente più di destra e più bianco rispetto a quello NBA (anche se le percentuali NASCAR sono inarrivabili). I numeri dicono che il pubblico totale durante la stagione regolare 2017 è calato rispetto a quella precedente (17.260.000 contro 17.790.000), ma non è un crollo e parliamo comunque di un’affluenza paragonabile a quella di annate precedenti. Peggio è andata invece agli ascolti televisivi, calati di quasi il 10%. Ma al di là di questi discorsi, troviamo interessante che per la prima volta la Nike abbia voluto giocare la carta di una pubblicità divisiva: perché se è facile fare uno spot contro il razzismo e la violenza, perché tutti (a parole) siamo contro il razzismo e la violenza, più rischioso è fare una pubblicità che tutti, pro o contro Trump, interpretiamo contro il presidente degli Stati Uniti. È come dare degli stupidi al 50% degli americani e a più del 50% di chi guarda la NFL. Può portare buona stampa, di sicuro, in attesa del riscontro commerciale: saranno di più i democratici che passeranno da Adidas a Nike o i repubblicani che faranno il percorso inverso? I manager dell’azienda dell’Oregon pensano di sicuro al primo scenario, diversamente sarebbero da cacciare adesso.

Share this article