Mario Fossati e il confine del giornalismo sportivo

9 Maggio 2018 di Stefano Olivari

Fra i grandi giornalisti sportivi italiani Mario Fossati è stato il meno divo e il meno personaggio di tutti, nonostante in più di mezzo secolo fra Gazzetta dello Sport (1945-1956), Giorno (1956-1982) e Repubblica (1982-2010) abbia conquistato generazioni di lettori che amavano la sua prosa priva di retorica, con la sua enorme cultura che si manifestava negli articoli più semplici senza bisogno del doping delle citazioni che già prima del web di massa era a livelli insostenibili. Soltanto Enrico Currò, per distacco il miglior giornalista sportivo italiano (da decenni scrive su Repubblica) se per giornalismo intendiamo notizie e retroscena, non opinioni basate su notizie di altri, poteva scriverne la biografia senza infilarsi nel tunnel del ‘Grande uomo, grande maestro’ che non si nega ad alcun deceduto.

‘Mario Fossati e la storia del giornalismo sportivo in Italia (1945-2010)’ era in origine una tesi di laurea di Currò e pur con le modifiche per farla diventare un libro commerciale (Bolis Edizioni) ha della tesi di laurea mantenuto la chiarezza espositiva, narrando con pochi aggettivi, in purissimo stile Fossati, la straordinaria vita di questo giornalista il cui nome di sicuro dice poco ai più giovani. Ragazzo di Monza che dal liceo viene spedito direttamente sul fronte russo, Ottavo Fanteria: dei quattordici amici che si trovavano all’osteria Robbiati (lo scrive Gianni Mura nella prefazione) sarà l’unico a tornare a casa. Figlio di un sindacalista antifascista e cattolico, Fossati sfugge a repubblichini e tedeschi non andando in montagna, ma all’ippodromo del galoppo. Negli ultimi mesi della guerra San Siro è infatti una incredibile zona franca, dove in pochi metri si incrociano vite assurdamente diverse ma unite dalla passione per i cavalli. L’ippica rimarrà il grande amore sportivo della sua vita, insieme al ciclismo, all’atletica e all’alpinismo: già questi sport delineano una personalità di altri tempi e di altri tempi Fossati era davvero visto che nonostante la cultura enorme e i tanti viaggi ha in vita sua scritto un solo libro, litigando anche con chi lo definiva scrittore credendo di fargli un complimento. Come se il giornalismo fosse la serie B della letteratura e non un mestiere strutturalmente diverso.

Piccole collaborazioni con la Gazzetta, partendo con il calcio di serie C, fanno subito emergere un talento enorme che Gianni Brera valorizza. Lo fa in diversi modi, ma soprattutto mettendolo sul ciclismo e in particolare su Fausto Coppi, quando nel 1949 della Gazzetta diventa direttore: quasi tutto ciò che ci è arrivato di Coppi, poi riciclato e rimasticato da mille altri, è merito suo. Anche se il grande libro su Coppi, sui mille che sono stati scritti, lo scriverà Brera (‘Coppi e il diavolo’), sia pure con la collaborazione di Fossati. Che considera il ciclismo lo sport più onesto, quello più autenticamente popolare, dove l’ultimo dei gregari vale Coppi e dove non ci possono essere veri nemici o corridori che si meritino il tifo contro. Di fede coppiana, Fossati ha iniziato scrivere di ciclismo grazie a Magni ma ovviamente rispetta anche Bartali: si occupa di questi giganti negli anni in cui il ciclismo è nei sogni di ogni ragazzo uscito vivo dalla guerra ed è anche grazie a giornalisti come Fossati che il ciclismo ha mantenuto questa aura fin quasi ai giorni nostri. Il rapporto con Brera prosegue quando va a dirigere lo sport del Giorno, il giornale fortemente voluto da Enrico Mattei che toglierà al giornalismo italiano quella patina ottocentesca, per addetti ai lavori e per presunte élite, patina che in una certa misura sta tornando (non fosse altro che per le tirature ridotte). La redazione sportiva, con un giovanissimo Gianni Clerici, è clamorosa ed il Giorno è il primo grande quotidiano politico a capire l’importanza dello sport e a cavalcarla andando al di là del risultato e della mera descrizione dei fatti.

Non vogliamo però svelare troppo di 400 pagine che si leggono in un attimo. Currò intreccia la biografia di Fossati con quella degli eventi di cui il giornalista, scomparso nel 2013 a 91 anni, ha scritto e dei grandi e personaggi incontrati, da Meazza in giù, facendo conoscere a noi suoi lettori un carattere particolarissimo, duro con se stesso e con gli altri, poco televisivo e lontano anche dalle parrocchiette del giornalismo scritto. La sua stessa ammirazione per Brera mai era servilismo, visto che riteneva impossibile fare classifiche di bravura fra giornalisti. È un libro anche politico, non tanto per le idee di Fossati (era comunista, ma certo non inquadrabile in un partito) quanto per il confine fra cialtroneria e giornalismo che il protagonista spiega all’autore nei loro innumerevoli incontri e che Currò alla fine sintetizza in un decalogo. Con il vero messaggio che è però uno, direttamente dalla bocca di Fossati: “Non ho mai comandato nessuno, perché non voglio ubbidire”. Non è insomma difficile capire perché non sia mai diventato direttore di un giornale. Il risultato è notevole: da ogni riga emerge l’idea che Fossati ha del giornalismo, come di qualcosa che deve informare e far pensare al lettore di non avere buttato via il proprio tempo. Vale anche per il giornalismo sportivo, il mondo che si era scelto nonostante nelle sue possibilità ci fosse molto altro. Currò ha scritto un libro fossatiano, forse il libro che Fossati avrebbe dovuto scrivere. Merita comunque un grazie, fuori tempo massimo, per averlo ispirato.

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