L’Europa di Venezia, Spagnolo e Kokoskov

3 Maggio 2018 di Oscar Eleni

Oscar Eleni sulla mongolfiera iridata che passa sopra i tetti di Vilnius e ci porta verso Kaunas dove abbiamo cercato di bere qualcosa con Jasikevicius, il diavolo che ispirava persino i pigri della nazionale lituana. Libertà nel cielo, idee per il sindaco di Venezia, non più incatenato ai tornelli antiturismo sporco, che adesso ha una coppa europea da esporre nella sala trofei della Misericordia fra affreschi e ricordi storici, un posto magico che per il basket con memoria rappresenta quello che dirigenti incolti messi a comandare non vogliono ammettere. L’origine è la meta.

La Reyer ci ha dato l’unico trofeo europeo in una stagione cestistica di vacche molto magre, certo più magre del volley, meno in polpa persino di quelle del calcio dopo quello che fatto la Roma e, in parte anche la Juventus, tutte due vittime di chi nega la video assistenza, certo una pallosità, certo uno strumento di morte per mestatori ed imbroglioni, ma assolutamente necessario perché l’arbitro merita rispetto sempre, ma può non essere sempre nella posizione giusta per decidere in un nanosecondo. Il basket italiano, a proposito di Europa, era a secco da tempo. Meglio questo trofeo che ricorda la vecchia coppa con le orecchie che una volta era il massimo. Oggi è il minimo. Accontentarsi, ma anche aggiornarsi.

Finalmente una finale degna, si dice in giro. Non avevamo dubbi. Venezia ed Avellino restano le uniche due sfidanti credibili per la Milano dei peccatori che cercano casa ad equo canone per poter consentire bilanci che permettano di sfidare la riccanza continentale sparsa un po’ qui e po’ là dove le tasse sono meno pesanti e la burocrazia non ti tiene a bagno maria due mesi per dare una carta d’identità come succede nella Miano che su queste cose si beve da sola. Venezia ed Avellino più di Brescia, ma nella casa Bragaglia e Diana c’è atmosfera. L’abbiamo sentita anche ad Avellino, peccato che non l’abbia percepita una squadra che ha ritrovato la sua faccia quasi vera soltanto al Taliercio. Purtroppo non c’erano tutti nella partita che poteva anche ribaltare tutto perché De Raffaele ha dovuto cercare molto nel cuore della Reyer imprigionata dalla paura di deludere, cominciando dall’elegante Austin Daye, per cui le notti non sono mai tenere, per finire a Tonut che si è fermato alla stazione di posta del campionato dove gli avevamo battuto tutti le mani due settimane fa. Purtroppo per Sacripanti l’Avellino che doveva difendersi dall’accusa d’indegnità dopo le botte prese in casa contro Sassari resta una squadra senza armonia. Partitona per Rich e Fesenko, bella prova per D’Ercole e Leunen, modesto l’aiuto di Lawal, partitaccia per Wells, Scrubb, Zerini, l’inguardabile Fitipaldo, ma, soprattutto, per Filloy con quello 0 su 7 da 3 che è soltanto la parte brutta più visibile di un leone che ha perso le unghie.

Anche Venezia ha sofferto, ci scuseranno gli appassionati telecronisti, bello ritrovare Casalini anche se questo saio dell’umiltà con parabole per far voler bene a tutti stonano un tantino, ma non è vero che abbiamo visto grandi cose. Era una finale, accidenti. Si sono battuti. Avellino poteva anche ribaltare il meno 8 dell’andata, c’è stata lotta, ma le cose belle da tenere a mente non sono tante a parte quel geniaccio di Peric che una volta di più ha dimostrato come il destino oro granata dipenda davvero dalla sua fantasia di artista spesso incompreso. Bravissimo Cerella che la gente ama per quello che è, senza finzioni, un gladiatore utile in qualsiasi arena, in qualsiasi gruppo e Milano ha fatto male a lasciarlo andare. Sempre sorprendente Watt anche quando deve combattere i giganti. Bella globalmente la partita di Haynes, a parte l’inizio, a parte la crisi nella parte più delicata della sfida. De Raffaele e la sua meritata felicità. Sacripanti e la sua immeritata tristezza. Due generali che meritano rispetto. Così come lo meriterà Buscaglia anche se adesso ci vuol convincere che Gutierrez non è sciagura ma un giocatore in progresso. Di solito ha ragione lui. Vedremo. La cenere per il pentimento è nei sacchi.

Siamo contenti che alle premiazioni il presidente federale Petrucci abbia ritrovato la voglia di sorridere. Forse ha visto cose che a noi sono sfuggite, ma certo era una coppa europea e per questa, ce lo auguriamo, la gabbia tifosi ospiti è stata abolita lasciando che anche quelli di Avellino respirassero quasi liberi, vedendo quello che meritava di essere visto e non intuendolo dietro quella lastra appannata dove si schiaccia l’entusiasmo anche dei fedelissimi.

Lasciare Venezia in mongolfiera, così per evitare i tornelli del sindaco, puntando sul cuore del sistema dopo la notizia dell’ingaggio in casa Real Madrid di Matteo Spagnolo, classe 2003, un metro e novanta, scuola di Mesagne prima di quella nobilissima della Stella Azzurra. Ora ci viene il dubbio che nelle “grandi” società italiane, insomma in quelle che sognano la seconda squadra miniera, quelle che hanno un bilancio per poter pagare più di 8 euro all’ora allenatori ed osservatori, non siano tutti attenti alla stessa cosa. Diciamo che a Madrid vedono lungo. Pensiamo a Doncic. Disturba che si siano accorti loro prima dei nostri che i simil Pajola esistono e giocano in Italia. Il Petrucci amaro che vede la Roma cestistica così desolata forse era avvilito anche per questo rapimento. Non è detto che abbiano ragione al Real. La certezza, però, è che ci fidiamo più delle loro analisi sui giocatori del futuro di quelle che si fanno da queste parti dove i presidentoni hanno avvisato il giocatore italiano che spera di avere un posto per regolamento: vai in campo se lo meriti. Giusto, ma attenzione a chi li deve mandare in campo questi attori quasi sempre senza parte o, al massimo usati per servire il pranzo alle presunte stelle.

Mentre la vita di D’Antoni viene celebrata su Sports Illustrated, dando ampio spazio al periodo milanese, mentre Houston si fa uccellare in casa da Utah in gara due ecco che uno degli assistenti della squadra che viene dal regno dei mormoni sta per essere incoronato come primo europeo capo allenatore su una panchina NBA: Igor Kokoskov, serbo, grande rivelazione con la Slovenia campione d’Europa, andrà a guidare i Soli di Phoenix. Speriamo che adesso trovi un posto anche Ettore Messina, mentre ci dispiace che Blatt dopo aver fatto ancora benissimo al Darussafaka possa tornare a farsi venire l’ulcera nel circo dove ai giocatori non servono allenatori, ma soltanto dei buoni agenti e dei competenti uffici stampa, tanto poi sul campo se la giocano due contro due se va bene, ma meglio uno contro uno e gli altri tutti a guardare, sì qualche volta non stanno fermi come nell’ultimo assalto andato bene a Cleveland, ma in generale la gloria è per pochi, sarà per questo che al CIO si sono convinti che anche il tre contro tre avrebbe dato soldi e spettatori. Quelli farebbero fuori, se potessero, metà delle gare olimpiche per promuove la lotta femminile sul fango.

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