Ready Player One, Spielberg per i ragazzi di oggi

3 Aprile 2018 di Stefano Olivari

Raramente abbiamo atteso l’uscita di un film come quella di Ready Player One, merito del favoloso romanzo di Ernest Cline uscito nel 2010 che mescola fantapolitica e citazioni anni Ottanta ma non si può ricondurre a un genere specifico, nemmeno a quello definito ‘dystopian fiction’, se non per esigenze editoriali. E l’ultima opera di Steven Spielberg, riadattata come sceneggiatore dallo stesso Cline, non ha deluso anche se i temi forti del libro sono stati tenuti a margine in favore di due ore e rotti di spettacolo puro dedicato giustamente ai diciottenni di oggi più che a quelli di ieri.

Il punto di partenza è il 2045, in un mondo dove tutti sopravvivono in qualche modo (sarà per il reddito di cittadinanza) ma quasi tutti lo fanno abbastanza male, con la classica (in America) roulotte per white e non solo white trash che si è evoluta di poco. Unica via d’uscita dal reale è OASIS, un mondo virtuale in cui si può giocare, studiare, lavorare, guadagnare e in definitiva vivere. Il suo inventore, James Hallyday, è morto e la sua ultima volontà è stata quella di lasciare la proprietà di OASIS, quindi della prima azienda del mondo, a chi parteciperà a un gioco andando alla ricerca dell’Easter Egg (letteralmente uovo di Pasqua, che nel mondo nerd significa messaggio nascosto) contenuto in OASIS. Alla competizione partecipano ragazzi poveri come Wade Watts, direttamente da una baraccopoli di Oklahoma City, ma anche grandi corporation che di OASIS vogliono sfruttare soltanto il potenziale commerciale.

Non spoileriamo, visto che Ready Player One è appena uscito nelle sale e sta anche avendo un buon successo, ma non possiamo non sottolineare le due filosofie diverse, che poi sono anche la differenza fra letteratura e cinema, a maggior ragione oggi che al cinema ci vanno principalmente due categorie di persone: giovani tamarri con annessi pop-corn e cinquanta-sessantenni con maglione e/o giacca di velluto. In Ready Player One romanzo c’è la riflessione sul controllo e sulla divisione in classi, più una durissima critica al virtuale prendendo come età dell’oro l’ultimo decennio senza web, cioè gli Ottanta. Ready Player One film è invece per metà virtuale, con una grafica straordinaria che il settantunenne Spielberg cavalca con l’agilità di un ragazzino stando sempre un passo indietro rispetto al cattivo gusto. Un film che degli anni Ottanta cita poco (e pochissimo la grafica, ben lontana dal vettoriale) ma che usa certi meccanismi del loro cinema per giovani: lui e lei uniti nella battaglia contro il cattivo, che però è un po’ stupido e nemmeno in fondo cattivissimo perché alla fine riconosce la bravura dei nostri eroi. Importante l’assenza dei genitori castranti, visto che entrambi i protagonisti sono orfani, facile scorciatoia ma anche grande trovata dai tempi di Qui, Quo e Qua. Ambiguo il messaggio: i giovani buoni degli anni Ottanta, dei Cinquanta a cui quel cinema si rifaceva, ed evidentemente anche quelli del 2045 non vogliono cambiare le regole del gioco scritte dagli adulti, ma soltanto giocare. Limitare OASIS, dopo averne preso il controllo, significa in definitiva accettarlo.

Nel film Hallyday è una specie di genio visionario, mentre nel libro è un intelligentissimo imprenditore, evidente replica di Steve Jobs. Infatti nel libro molto importante è la figura di Ogden Morrow, il Wozniak della situazione che al cinema appare invece poco. Il giochino delle differenze potrebbe continuare all’infinito, ma visto che abbiamo amato il libro e ci è piaciuto molto il film non è poi così importante. Da sottolineare l’umiltà di Spielberg nel non autocitarsi e semmai omaggiando altri (Kubrick con Shining), nonostante lui sia un’icona della cultura pop anni Ottanta (e non solo), e la bravura degli sceneggiatori nell’allargare il ventaglio delle citazioni anche ai decenni successivi, costruendo così qualcosa di autonomo. Commovente la parte sulla cameretta del giovane Hallyday, ragazzino solitario che non aveva però alcuna voglia di esserlo, purtroppo trascurato il discorso sugli hikikomori. Questa la chiave del libro, del film, di tutto: il progresso tecnologico è buono, ma l’isolamento è cattivo. Alla fine siamo sempre noi a decidere quando accendere e quando spegnere la nostra disponibilità, in ogni epoca, anche se nel Medio Evo non c’era Netflix.

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