Il sano disprezzo di Mentana

6 Marzo 2018 di Indiscreto

Abbiamo seguito almeno dodici ore di #maratonamentana su La 7, dai primi exit poll fino ai commenti pomeridiani riguardanti il discorso di Renzi: non solo per l’importanza di queste elezioni ma anche per la formula quasi ipnotica di Enrico Mentana, praticamente un format sintetizzabile in tre punti. Il primo: in studio quasi soltanto giornalisti e quasi tutti bravi, o comunque con la capacità di farsi ascoltare. Da Marco Damilano a Franco Bechis, da Aldo Cazzullo a Claudio Cerasa, non è che si tratti di personaggi che Mentana ha in esclusiva (anzi: loro, Polito, Padellaro, Travaglio, Gomez e altri ce li sogniamo ormai di notte, essendo ovunque) ma è con lui che funzionano al meglio. In un contesto in cui i politici sono soltanto in collegamento e non possono zavorrare la discussione con i loro monologhi che prescindono dall’intervento precedente. Dettaglio che non è un dettaglio: sono tutti giornalisti della carta stampata, quelli che tutti riteniamo (a ragione) i ‘veri’ giornalisti, per preparazione e pubblico più preparato a cui si rivolgono. Altra considerazione impopolare: un giornalista nella media (ripetiamo: nella media) sa formulare un concetto meglio di chiunque altro, anche magari più competente (cosa che avviene quasi sempre) nella materia specifica. Per questo Mentana non fa parlare la gente e riduce ai minimi termini gli addetti ai lavori. Magari lo farebbero anche altri direttori, se potessero permetterselo.

Il secondo punto è in parte legato al primo: Mentana, da sempre in televisione (prima di creare il Tg di Canale 5 era stato vicedirettore del Tg2), sembra disprezzare i giornalisti televisivi e in particolare i suoi. Un disprezzo mal celato già ai tempi di Mediaset e diventato parte integrante dello spettacolo a La 7. Lo schema Fede-Brosio, nato al Tg4 ai tempi di Mani Pulite,  è qui perfezionato: Mentana chiede ai suoi inviati cose che lui sa già, come per valutarne la competenza, sfottendoli poi in maniera sottile e non sempre compresa dagli inviati stessi. Costretti a portare al microfono come riempitivo personaggi improponibili o semi-sconosciuti, mendicando attenzione da addetti stampa che soprattutto nella sconfitta vedono scomparire tutti i loro leader. La battuta delle 24 ore quando si è vista una calca di microfoni e taccuini per le dichiarazioni di Nico Stumpo di Liberi e Uguali: “Ma se arrivava Obama cosa facevate?”. Uno spirito che salda Mentana al suo pubblico, di base più informato rispetto a quello di altri canali ma che con il popolo bue condivide la scarsa stima nei confronti dei giornalisti. L’unico inviato che Mentana sembra rispettare è Alessandra Sardoni, non a caso l’unica che viene promossa dal campo allo studio. Più equilibrato il rapporto con i sondaggisti e in particolare con Fabrizio Masia che però ha lasciato la collaborazione con La 7 un mese fa e che per Mentana era una spalla perfetta. Una battaglia persa quella con i tecnici: la percentuale di collegamenti con qualche problema audio o video è imbarazzante, da tivù locale.

Punto terzo del format, frutto anche dei rapporti creati in altre sue trasmissioni: lo spazio maggiore, rispetto ad altre reti, dato a movimenti e posizioni che potremmo genericamente definire populisti. Spesso accusato di avere tirato la volata ai Cinquestelle e di avere sovrarappresentato la Lega, Mentana ha dimostrato di avere il polso di ciò che stava accadendo pur senza mai mettere in primo piano la presunta gggente, alla Del Debbio e simili. E lo ha dimostrato anche nel battibecco notturno con Simone Di Stefano, il leader di Casa Pound, che si lamentava dello scarso spazio mediatico del suo movimento, votato poi da meno dell’1% degli elettori. Una lamentela incredibile visto che Casa Pound, l’onda nera e il pericolo fascista (ma anche la grande voglia di sinistra, basti pensare al risultato di Liberi e Uguali) sono state folli invenzioni mediatiche, con il supporto forse in malafede di alcuni sondaggisti.

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