Henry Williams non tornerà più

16 Marzo 2018 di Stefano Olivari

Perché un fenomeno come Henry Williams non ha mai giocato nella NBA? Ce lo chiediamo a pochi giorni dalla sua morte, a soli 48 anni di età, avvenuta a causa di una malattia renale che si trascinava dal 2009 e che aveva combattuto in tutti i modi. Ma ce lo chiedevamo anche nei suoi anni d’oro, visto che dal 1993 al 2002 ha regalato spettacolo, pulizia tecnica e vittorie a Verona, Treviso, Roma e Napoli. La domanda era ed è chiaramente retorica: Williams era una guardia di un metro e novantuno, che per taglia fisica nella NBA dell’epoca sarebbe forse (da sottolineare il ‘forse’) rimasta ai margini, con contratti non garantiti e tagli incombenti. La differenza con il 2018 è che rimanere ai margini della lega non era conveniente per il giocatore medio, che in Europa e soprattutto in Italia aveva opportunità migliori dal punto di vista finanziario. Su tutto poi prevalevano i numeri: nella NBA del 1992 c’erano 27 squadre, quindi minimo 45 ‘posti’ (in realtà quasi 100, perché i roster erano di 12 elementi) in meno rispetto alla situazione attuale, senza contare la G-League e la sua attrattiva nei confronti di chi ha paura di uscire dal giro. Se a questo sommiamo la ACB, le squadre da Eurolega, la Cina, eccetera, si capisce perché il livello degli americani che vediamo in Italia sia crollato.

Williams proveniva dalla University of North Carolina at Charlotte (da non confondersi con la più famosa North Carolina, quella dei Tar Heels), college non di primissimo piano ma comunque capace di tirare fuori giocatori come Cedric Maxwell, uno degli uomini chiave dei Celtics di Larry Bird, e il DeMarco Johnson visto anche lui come Williams con varie incarnazioni italiane. Si era fatto tutti e quattro gli anni canonici, sotto la guida di Jeff Mullins (da giocatore oro ai Giochi di Tokyo 1964) ed è anche per questo che intorno alla sua esplosività fisica (era soprannominato Hi Fly) aveva costruito un gioco completo. Logico, per un ragazzo dell’Indiana come lui che al college era già arrivato con fondamentali perfetti. Un gioco che gli era valso la chiamata degli Spurs al secondo giro del draft 1992, scelta numero 44, subito dietro a quel Danilovic che in Italia sarebbe stato suo grande avversario. Per dire la considerazione di cui godeva, ai Mondiali del 1990 in Argentina, quando ancora gli USA schieravano una squadra di universitari, fu convocato da Coach K, che stravedeva per lui anche dal punto di vista umano, nella nazionale dei Kenny Anderson, dei Christian Laettner e degli Alonzo Mourning, battuta in semifinale dalla meravigliosa Jugoslavia di Drazen Petrovic, che proprio in Argentina terminò il suo percorso con il famoso episodio della bandiera croata strappata da Divac.

Williams non era pazzo, avrebbe ovviamente preferito giocare nella NBA che in Italia, ma a San Antonio fu tagliato poco prima dell’inizio della stagione regolare e uno come lui, sempre abituato a recitare da protagonista (capocannoniere ogni epoca del suo college), non accettò il declassamento e preferì essere protagonista in quello che era il secondo torneo professionistico del mondo che ai margini nel primo. Da ricordare che Williams arrivò a Verona, in serie A2, in era pre-Bosman: ogni squadra poteva avere due stranieri (in A2 è così anche oggi), ma era anche per questione di numeri una A2 con più qualità rispetto a quella odierna, una categoria da cui teoricamente si poteva arrivare ai playoff scudetto. Il nostro Williams preferito rimane quello di Verona, soprattutto nella stagione seguente al suo arrivo in Italia, quando trascinò alla semifinale scudetto una bella Glaxo, allenata da Franco Marcelletti e con in campo anche Bonora, Frosini, Alessandro Boni e Sylvester Gray. Williams avrebbe comunque fatto ottime cose anche nella Benetton Treviso allenata da Mike D’Antoni, con la gemma dello scudetto 1996-97, lasciando buone tracce di sé anche a Roma e a Napoli. Dopo il decennio italiano fece un tentativo di NBA fuori tempo massimo, ma per gli Charlotte Bobcats sarebbe stato solo un commentatore. Poi si dedicò ad altro ed in questo altro c’era anche il ruolo di pastore presbiteriano.

I suoi compagni di college lo hanno ricordato come un Michael Jordan mancino e rapportato alla realtà italiana Williams è stato davvero qualcosa di simile. Il punto non è però che Williams sia stato un bravissimo giocatore e una bravissima persona, ma che giocatori forti come lui trovassero interessante vivere tutta la propria carriera in Italia. Al di là dell’autoflagellazione, ribadiamo che ad essere cambiati sono anche il resto del mondo FIBA-Eurolega ed il numero di giocatori che la NBA controlla. Oggi nemmeno se tornassero gli imprenditori di una volta, facciamo l’esempio di una serie A con 10 Armani, potremmo vedere a casa nostra un Henry Williams. Dobbiamo farcene una ragione, accettando un livello più basso dei singoli e puntando su altro. Magari un gioco diverso da quello che coinvolge due giocatori su cinque, dopo 15 secondi di azione in cui il pallone non cambia proprietario.

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