L’Italia dove vincevano tutti

1 Febbraio 2018 di Indiscreto

La morte di Azeglio Vicini, a quasi 85 anni, ci fa dare l’addio a un uomo che per tutti, tranne che per familiari e amici stretti, sarà per sempre il commissario tecnico dell’Italia al Mondiale del 1990. Un selezionatore ‘condiviso’ come Prandelli, Zoff e Bearzot, mai percepito dall’opinione pubblica come uno di parte. Una specie di presidente della Repubblica, come da lapsus del TG4 che nella grafica riguardante la sua scomparsa lo ha definito ‘Azeglio Ciampi’. Italia ’90 rimane uno dei più bei ricordi del nostro calcio perché al di là degli aspetti generazionali chiuse il decennio della rinascita del paese e del suo calcio, ma anche perché quella Nazionale era realmente la squadra degli italiani. Nel senso che per una congiuntura storica particolare, ma anche per le scelte di Vicini, quasi tutti tifavano per gli azzurri a prescindere dal proprio tifo a livello di club. Cosa che raramente era accaduta prima (nemmeno nel 1982, tranne che dal 5 all’11 luglio, basti pensare ai toni delle campagne giornalistiche per Pruzzo e Beccalossi) e che quasi mai sarebbe accaduta dopo. A maggior ragione con c.t. identificabili chiaramente con un club, come Sacchi e Lippi.

La squadra che Vicini presentò al Mondiale non aveva certo questo problema, come del resto lo stesso c.t, ed aveva pochi punti di contatto con il ciclo azzurro precedente: di fatto solo Bergomi, visto che Altobelli e Cabrini durarono poco. Fra i giocatori più rappresentativi, citando chi effettivamente nel torneo scese in campo, c’erano sampdoriani (Vialli, Vierchowod), interisti (Zenga, Bergomi, Ferri), milanisti (Baresi, Maldini, Donadoni), juventini (Schillaci, De Agostini, Baggio appena preso dalla Fiorentina), romanisti (Giannini, Carnevale appena preso dal Napoli), napoletani (De Napoli, Ferrara). Non è che Vicini avesse progettato a tavolino questa nazionale mosaico, ma all’epoca non esisteva un club dominante e gli scudetti dal 1981 al 1991 (in 10 anni 7 vincitori diversi: Juventus, Roma, Verona, Napoli, Milan, Inter e Sampdoria) lo testimoniano in maniera perfetta. Il confronto con la serie A odierna è impietoso, in ogni senso.

Il luogo comune ricorda la Nazionale di Vicini come una squadra dal gioco spumeggiante, ma in realtà le sue idee tattiche non erano tanto diverse da quelle del suo predecessore sulla panchina azzurra. Anche se con Bearzot c’era una cordiale antipatia, mai ben spiegata. Un libero di costruzione, due marcatori puri, il tornante, il fludificante (per esprimerci come all’epoca), un regista, uno o due mediani a sostegno dei tre o due giocatori di maggior classe da combinare secondo l’ispirazione del momento. Vicini iniziò il suo ciclo con la Nazionale maggiore portandosi in dote l’entusiasmo e lo spirito offensivo della sua Under 21, per poi diventare leggermente più prudente, pur all’interno degli stessi schemi e in pratica degli stessi uomini. La formazione con cui esordì all’Europeo 1988, contro la Germania Ovest padrona di casa, era già in pratica quella di Italia ’90: con l’eccezione di Mancini (al suo posto Carnevale), l’undici di partenza, il 9 giugno 1990, di Italia-Austria prima partita del nostro Mondiale.

Nella sua autobiografia Vicini ha sostenuto che quel terzo posto non fu un Mondiale buttato, perché c’erano squadre con qualità dei singoli superiore: dalla Germania Ovest di Matthäus all’Olanda di Van Basten, dall’Argentina di Maradona al Brasile di Careca, senza contare il livello di squadre come l’ultima Jugoslavia unita, la Spagna o l’Inghilterra incontrata dagli azzurri nella commovente finale per il terzo posto di Bari. Commovente per come le squadre alla fine festeggiarono la fine di Italia ’90 e di un’epoca irripetibile. Di sicuro l’ultima in cui il calcio per nazionali aveva la stessa importanza di quello per club. Con questo non vogliamo usare lo schema classico dei coccodrilli, affermando che Vicini sia stato un genio del calcio, perché non è vero e perché con il senno di poi proprio al Mondiale fece diversi errori: non seppe dire di no a Vialli mezzo infortunato, non ebbe il coraggio di puntare al 100% su un Baggio in condizioni splendenti, si dimenticò di Mancini. Certo, senza l’uscita di Zenga su Caniggia adesso Vicini avrebbe la statua equestre. Ma è stato una persona pulita, che ha lavorato ed è andata in pensione con grande classe, nonostante lo scarso stile con cui Matarrese lo congedò e senza mai lamentarsi di una sfortuna che (vedere palo di Rizzitelli a Mosca) fa parte del calcio . Azeglio Vicini, allenatore dell’Italia quando allenare l’Italia era il massimo.

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