Gli Smiths che non torneranno (Intervista a Mike Joyce)

5 Febbraio 2018 di Glezos

Da batterista a dj il passo non è troppo lungo: hai pur sempre davanti dei cerchi, ieri i tamburi e oggi i dischi. Nel caso di Mike Joyce la regola vale doppio, oggi che i cerchi di gomma – i dischi, come cantavano i suoi Smiths in ‘Rubber Ring’– li suona nei locali di tutta Europa. L’ex drummer dei mancunian più famosi di sempre lo fa con lo stile che l’ha sempre contraddistinto: deciso, articolato e obliquo a qualsiasi trend. In Italia di recente per un breve tour nelle vesti di dj, Mike da noi si sente a casa e fin dalle prime battute si mostra disteso, sorridente e ben predisposto su qualsiasi argomento. Anche alla parola proibita, reunion, alla quale risponde nominando (forse) sibillinamente tre ex-Smiths su quattro. Sviluppi in vista?

Glezos: Quando hai iniziato a fare il dj nei locali?

Mike Joyce: Una decina d’anni fa. Un amico aveva un club a Manchester e mi ha chiesto se volevo provarci. “Ma non so come si fa a fare il dj, non ne ho la minima idea”, gli ho detto. E lui: “Si fa così: suoni prima un disco, poi un altro e dopo un altro ancora” (risate, nda). Mi sono detto: in effetti così dovrebbe essere, e ho iniziato. Perché comunque io non faccio mix di dance music, metto semplicemente i dischi che mi piacciono uno dopo l’altro. Dopo la prima serata il mio amico mi ha chiesto se volevo farne un’altra, poi un agente che era venuto a sentirmi mi ha proposto se avevo voglia di andare in giro come dj. Lo faccio da una decina d’anni ed è sempre molto bello: gli Smiths qui hanno avuto un grande successo e anche in Italia come in Inghilterra c’è un sacco di gente che non ci ha visti dal vivo, quindi è anche l’occasione ideale per conoscerci, scambiare quattro chiacchiere, fare foto, autografare dischi ai fan miei coetanei e anche a giovanissimi di 17 o 18 anni.

G: Che dischi suoni nelle serate?

MJ: Dipende. Non suono un genere particolare, suono quello che mi piace: Clash, Undertones, Buzzcocks, qualcosa dei Blondie o dei Blur, più che altro musica costruita intorno alla chitarra. A volte devio su Happy Mondays, Stone Roses o Joy Division ma metto i dischi che già ascolto di mio, soprattutto la musica con la quale sono cresciuto a Manchester.

G: È la tua prima volta in Italia come dj?

MJ: No, sono già venuto un po’ di volte in passato, da Milano al Covo di Bologna due volte, da Rimini a Palermo, da Brescia a Bergamo. Mi piace molto l’Italia, è il mio paese preferito in assoluto.

G: Come trovi l’audience italiana in questa tua nuova veste?

MJ: Sono tutti molto gentili ed educati, con delle differenze. In una grande città la gente ha un’attitudine più aperta nell’andare in un club, mentre in centri più piccoli – come a Castelfidardo l’altra sera – sono tutti molto composti, quasi dolci: ascoltano, apprezzano, ballano ma non danno fuori di matto come a Roma, tanto per fare un esempio. In Inghilterra è la stessa cosa, anche se da noi nelle grandi città la gente ha un atteggiamento molto più distaccato nei confronti della musica, dei dj e del divertimento in generale.

G: Partiamo da lontano. Prima degli Smiths hai iniziato in gruppi punk come gli Hoax e i Victim: che ricordi hai di entrambi?

MJ: Gli Hoax sono stati il primo gruppo nel quale ho suonato, e sono stati molto importanti per me. Avevo sedici anni e avevo visto i Buzzcocks dal vivo: John Maher (batterista del gruppo, nda) aveva suonato da Dio, e lì ho deciso che anch’io volevo far parte di un gruppo come il loro. E a Manchester di gruppi ce n’erano una marea, erano gli anni del punk e tutti stavano mettendo in piedi una band. Così mi sono unito agli Hoax, era la prima volta ed era un periodo elettrizzante: suonare dal vivo anche all’estero, registrare un singolo, che cosa fantastica… devi aggiungerci che sedici anni sono pochi per andare in giro in Inghilterra e in Europa, anche per un gruppo punk, tanto che non potevo dire quanti anni avevo altrimenti non ci avrebbero nemmeno fatto entrare in un club, figurati suonarci. E tutti gli amici a chiedermi: “Cosa fai nei fine settimana che non ti si vede più?”. E io, quasi indignato: “Come cosa faccio, suono in una punk band!”. Dopo entrai nei Victim, che venivano dall’Irlanda del Nord ed erano miei grandi amici, e facemmo bellissimi concerti. Poi nel 1982 un amico mi chiese se avevo voglia di suonare con un chitarrista amico suo, un certo Johnny Marr. Dissi: “Beh, proviamo”. Come dicono, il resto è storia.

G: All’epoca Rat Scabies dei Damned mi aveva parlato benissimo dei Victim, era entusiasta di voi.

MJ: Davvero? Questa è grande, non lo sapevo! Sono un grande fan di Rat Scabies, mi è sempre piaciuto moltissimo il suo modo di suonare: il suo drumming è fantastico, con tutta quell’energia. Grande. Non sapevo ci apprezzasse, sono molto contento di quello che mi dici.

G: Qual è il tuo gruppo preferito? Ti piacevano molto i Buzzcocks…

MJ: Non è che mi piacessero, ero proprio ossessionato da loro. Completamente ossessionato. Compravo tutti i dischi, tutti i bootleg, tutti i giornali che li menzionavano, andavo a tutti i concerti, avevo scoperto dove abitava Pete Shelley e giravo intorno a casa sua, intorno al loro ufficio, li seguivo per strada… Buzzcocks, Buzzcocks, Buzzcocks, nella mia vita non contava nient’altro. Un grande momento fu quando si riformarono nel 1989: John Maher suonò ancora per un po’, poi nel 1990 mi chiese se volevo sostituirlo e andare in tour con loro, e fu un grande, grande onore. Suonare con i miei idoli è stata la più grande cosa che mi sia mai capitata.

G: C’è un legame tra il punk e quello che hai fatto dopo con gli Smiths?

MJ: Assolutamente sì. Innanzitutto a partire dal sound e dal modo di suonare: la mia musica era il punk e venendo da lì sapevo adattarmi alle dinamiche. Fin dai primi pezzi degli Smiths quando dovevo calcare la mano e suonare più aggressivo lo facevo tranquillamente, e questo grazie all’esperienza con Hoax e Victim. Ho rivisto di recente dei filmati degli Smiths all’Hacienda nel 1983, e lì pestavo di brutto: funzionava bene con la chitarra di Johnny e il basso di Andy, e persino su Morrissey.

G: Mark P. disse che il punk morì il giorno in cui i Clash firmarono con la CBS. Si può dire la stessa cosa in ambito indie con gli Smiths alla EMI?

MJ: No, no, perché quello di cui avevamo bisogno era diffondere il verbo presso un pubblico più grosso, e il modo per farlo era usare un’etichetta più grossa. L’idea era quella: avere più gente che lavorasse con noi per far sentire a più persone quello che stavamo facendo, e questo era difficile farlo in giro per il mondo con un’etichetta indipendente. In Inghilterra è diverso, la distribuzione da noi è buona ma appena guardi a Stati Uniti, Australia, Sudamerica e il resto d’Europa con una piccola etichetta diventa dura, senza i contatti e le relazioni che servono e senza una dimensione giusta. Noi volevamo andare avanti, ma al tempo stesso non ci eravamo venduti: restavamo la stessa band, dicevamo le stesse cose e con la stessa musica. Non ci eravamo rammolliti, stavamo cercando un nuovo veicolo che ci portasse nel mondo.

G: Cosa pensi quando qualcuno nomina la temutissima parola ‘reunion’?

MJ: Uuuhhh…Penso che non succederà, e lo credo davvero. Ognuno di noi sta facendo le cose per conto suo e penso sia bene così. Il momento degli Smiths è stato tra il 1982 e il 1987, e se ti piacciono i dischi ascoltaci nei dischi. Anche perché oggi siamo persone diverse: eravamo tutti così giovani, facevamo qualcosa che ci entusiasmava, qualcosa di unico. E io non voglio tornare indietro, e nemmeno Andy e Johnny vogliono tornare in un posto che hanno lasciato 31 anni fa. Perché dovremmo farlo? Non faccio nomi perché sarebbe scorretto, ma non ho visto molti gruppi che mi abbia fatto piacere rivedere tra quelli che si sono riformati negli ultimi tempi. Non sono più loro, sono persone diverse che stanno cercando di ricreare un qualcosa che erano tanto tempo fa. Oggi i Buzzcocks non sono lo stesso gruppo che ho visto quando avevo 16 anni e non lo saranno mai più: ai tempi ho visto una grande band e voglio tenermi quel ricordo. Non voglio tornare al passato, voglio andare avanti.

G: Guardando indietro, c’è qualcosa che oggi faresti in modo diverso?

MJ: No, è stato tutto perfetto. Ho fatto parte di uno dei gruppi più cool che siano mai usciti dall’Inghilterra, ho suonato con i Buzzcocks – cioè con la ragione che mi ha spinto a suonare la batteria -, e quello che ho vissuto con nomi come Sinead O’Connor, John Lydon e i Public Image e altri è stato fantastico. Ovviamente vorrei che alcune cose meno piacevoli non fossero successe, ma sono cose fuori dal mio controllo. Sto vivendo un bel momento: mi piace molto fare il dj, ho ripreso a suonare la batteria, ho appena iniziato a lavorare in radio. Sento di essere nel posto giusto.

G: A parte la musica hai altre passioni?

MJ: Mi piace coltivare la terra. Ho un piccolo appezzamento dove faccio crescere la mia frutta e la mia verdura. Mi piace moltissimo, la qualità è fantastica: sono vegetariano e mi piace sapere che quello che coltivo è creato dalla terra, dal sole, dalla pioggia e da me.

G: Stai lavorando a un nuovo progetto musicale?

MJ: Sì, sto facendo un programma radio a New York come batterista agli show in diretta con gli artisti che vengono a esibirsi. In più sto lavorando a un mio nuovo progetto, siamo in fase di preparazione e il mio manager sta trattando in questo periodo. È presto per essere più specifici in merito, ma potrebbe essere che qualcosa di interessante si concretizzi quest’anno.

G: Domanda ovvia per qualunque fan degli Smiths: quali sono oggi i tuoi film e/o libri preferiti?

MJ: Recentemente non ho guardato tanti film né letto quanto vorrei. Non amo troppo i romanzi, mi piacciono soprattutto le biografie di personaggi del mondo dello spettacolo: musica, teatro, cinema. Mi interessa la storia delle persone. Gli ultimi due che ho letto sono stati una biografia appena uscita su David Bowie e un libro sulla storia degli studi di registrazione in Inghilterra: se non ti interessa la musica è un po’ noioso, ma è interessante la ricostruzione di come nel decennio tra gli anni Sessanta e Settanta tutti gli studi fossero a Londra. Poi i 10CC aprirono il loro Strawberry Studio a Manchester, e da lì le cose cambiarono: fino a quel momento case discografiche, editori e studi erano tutti nella capitale, così se volevi avere a che fare col mondo dello showbiz dovevi per forza andare a Londra. Un libro interessante. Per quanto riguarda i film mi piace l’avangarde: niente Hollywood, niente ‘Star Wars’, niente film a carattere musicale, niente mainstream o successi da box office. Mi piace andare con mia moglie in un piccolo cinema vicino a casa nostra che proietta film inusuali poco battuti. In realtà ci piace uscire la sera per andare a ingozzarci di curry!

G: A questo punto nella tua vita c’è qualcosa che vorresti più di tutte?

MJ: No, sono contento così. Non sono Mick Jagger che è ancora lì che canta “I can’t get no satisfaction” (risate, nda). Sono molto fortunato: ho una bella casa, una bellissima moglie, dei bellissimi figli e sto bene con me stesso. Come ti dicevo prima sono molto fortunato: venire da una band della magnitudo degli Smiths mi ha permesso di non sentirmi frustrato. Sono nell’autunno della mia vita: ho lavorato duro in primavera ed estate, e per goderne i frutti adesso ho rallentato. Non troppo, solo un po’.

(Un grazie fraterno a Debora Dolcetto / Indiebox).

 

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