Belinelli ci ha creduto davvero

14 Febbraio 2018 di Indiscreto

I Philadelphia 76ers sono la nona squadra di Marco Belinelli in undici stagioni di NBA: di solito questo continuo cambiare maglia non è un indicatore di grande qualità, anzi è il primo marchio del mestierante (al di là del fatto che la no-trade classe ce l’abbiano in pochi e che quindi quasi mai si è padroni del proprio destino), ma questo non toglie che il quasi trentaduenne bolognese abbia sempre molto mercato per merito di alcune sue caratteristiche. È un tiratore ma al tempo stesso ha mantenuto la mentalità europea del non giocare solo per le statistiche, mentalità gradita ad allenatori spesso ridotti a mezze figure da parte di stelle e stelline individualiste. Sa stare al suo posto senza intristirsi quando un DNP (Did Not Play) tira l’altro, ma anche farsi trovare pronto psicologicamente quando si apre uno spazio.

Nel corso della sua carriera è poi molto migliorato negli aspetti del suo gioco migliorabili, come la difesa, cosa che non si può dire della maggioranza dei giocatori NBA e nemmeno, purtroppo, degli altri italiani qui transitati: Gallinari e Bargnani nel corso dei loro dieci anni in America hanno aggiunto esperienza, mestiere e fisico (soprattutto Gallinari, anche troppo), ma dal punto di vista tecnico non sono diventati giocatori migliori rispetto al momento in cui furono scelti al draft. Rispetto a loro Belinelli ha dovuto faticare molto di più per rimanere a galla, in un ruolo dove la concorrenza autoctona è enorme e dove gli standard atletici della NBA rendono ad un europeo, diciamo pure a un bianco europeo, la vita molto più difficile.

Gli inizi di Belinelli dicono tutto: scelto alla diciottesima chiamata del draft 2007 da Golden State Warriors di Don Nelson, che non erano gli Warriors quelli di oggi ma comunque una buona squadra (stagione da 48-34, con playoff mancati a causa della troppa forza dell’Ovest), gioca pochissimo in un contesto pieno di guardie ed ali piccole dal venezianismo spinto: Baron Davis, Monta Ellis, Matt Barnes, Stephen Jackson, Kelenna Azubuike… Belinelli fa tappezzeria di lusso, diventando personaggio di culto per la sua vaghissima somiglianza con Sylvester Stallone ma giocando solo per infortuni degli altri. Rocky non si arrende, Belinelli nemmeno. Nel 2009 viene mandato ai Toronto Raptors in cambio di Devean George: in Canada trova Bargnani, una squadra ambiziosa (ci sono anche DeMar De Rozan e Chris Bosh) ma certo non più fiducia da parte dell’allenatore, Jay Triano, così nell’estate 2010 viene scambiato con Julian Wright (esattamente lo stesso Julian Wright ora alla Grissin Bon Reggio Emilia) e finisce ai New Orleans Hornets. Qui finalmente trova minuti e impiego in quintetto base, oltre agli assist di Chris Paul che lo fanno svoltare e arrivare ai playoff. Peccato che poco dopo Paul vada ai Clippers, dopo l’incredibile vicenda che vede la lega di Stern mettersi in mezzo per impedire il suo passaggio ai Lakers, così che la seconda stagione a New Orleans è mediocre per tutti.

Nel 2012, da free agent, firma con Chicago Bulls di Tom Thibodeau, dove non è titolare ma dove si è probabilmente visto il miglior Belinelli, protagonista anche nei playoff. Una stagione che gli vale il contratto con i San Antonio Spurs, dove diventa il primo italiano a conquistare il titolo NBA, nel 2014, con soddisfazioni individuali come la vittoria nella gara del tiro da tre punti all’All Star Game ma soprattutto di squadra. Dire che l’anello l’ha vinto da trascinatore è esagerato, ma certo è che nella sua prima stagione in Texas piace molto a Popovich, che non a caso gli concede il quarto minutaggio medio (25,2 a partita) dietro a Parker, Duncan e Leonard. Insomma, non proprio uno sfigato. Invece nella seconda l’allenatore lo lascia un po’ andare, complici le percentuali di tiro che si abbassano di parecchio. ‘Pop’ vede giusto, perché nel 2015 Belinelli punta a monetizzare e firma a oltre 6 milioni di dollari (lordi, come lordo è tutto in America, mentre nell’Italia che rimpiange Minucci si ragiona sul netto) a stagione con i Sacramento Kings, dove vive una stagione pessima sotto ogni profilo. Un altro scambio lo porta nel 2016 agli Hornets, ritornati a Charlotte, dove le motivazioni di Michael Jordan e le sue personali lo portano a una relativa resurrezione. Non al punto di diventare insostituibile, visto che nel 2017 nell’ennesimo scambio viene mandato agli Atlanta Hawks, dove trova pochissimo spazio.

Tornato padrone del suo destino, dopo essere stato rilasciato dagli Hawks, adesso la firma con i Sixers che sono senza se e senza ma la squadra con la maggior quantità di talento giovane della lega, fra Embiid, Simmons, Saric e Fultz. Prospettive da playoff e anche oltre, per l’italiano che più di tutti ha lottato per avere successo nella NBA e che più di tutti ha sognato la NBA da bambino. Rimanendole attaccato anche quando la convenienza finanziaria avrebbe dovuto spingerlo verso una squadra da prima fascia di Eurolega, con l’asterisco alla Spanoulis: essere il settimo-ottavo (ma anche il terzo, secondo noi) in una realtà NBA medio-bassa è psicologicamente diverso che avere in mano i palloni decisivi in Europa. In ogni caso Belinelli si è meritato ogni punto e ogni dollaro (circa 35 milioni di soli ingaggi lordi NBA) della sua carriera. Il buco nero rimangono i risultati con la Nazionale, ma purtroppo per lui e per la sua generazione i treni sono già passati, fra allenatori che avevano già dato (Recalcati e Messina) ed altri (Pianigiani) inadeguati. Non è un’attenuante, visto come si gioca a pallacanestro oggi, anzi è quasi il contrario: ottimi gregari non sempre possono trasformarsi in discreti leader.

Share this article