Mai dopo le ventitré, mai con Franco Carraro

12 Gennaio 2018 di Stefano Olivari

Di solito i brutti libri li molliamo dopo dieci pagine ed è anche per questo che non li recensiamo quasi mai: come si fa a scrivere di qualcosa che non si è letto? Per Mai dopo le ventitré – Le molte vite di un riformista (Editore Rizzoli) abbiamo fatto un’eccezione perché fino alla fine abbiamo sperato che Franco Carraro nella sua autobiografia gettasse una luce nuova sulle tante situazioni dello sport e della politica che ha vissuto da dentro in quasi sessant’anni da dirigente sostanzialmente di tutto: federcalcio, CONI, Lega, Milan, UEFA, CIO e altro che forse dimentichiamo. E poi sindaco di Roma, ministro del turismo, senatore di Forza Italia, Mediocredito, Impregilo…

Invece l’opera è un mero elenco di fatti e situazioni stranoti, uniti a discorsi sui massimi sistemi: un monumento a sé stesso che si è fatto scrivere da una giornalista famosa come Emanuela Audisio, che però più di tanto non ha potuto fare per umanizzare un personaggio che ha occupato tante stanze del potere ma senza un disegno di fondo se non quello di perpetuare il potere stesso. Cosciente di questo materiale a disposizione, emotivamente scarso ma quantitativamente enorme, la giornalista di Repubblica si è lanciata in un’operazione spericolata: un tentativo di Open all’italiana, mettendo in bocca a Carraro frasi improbabili. Così quando fra un incontro con Samaranch e uno con Moggi questo Carraro letterario cita Bob Dylan (“Abbi cura dei tuoi ricordi, perché non puoi viverli un’altra volta”) e vari poeti l’effetto è involontariamente comico, così come quando quasi si commuove per le proteste giovanili e la controcultura degli anni Sessanta e Settanta, lui che a 23 anni era presidente di una federazione del CONI (quella di sci nautico, di fatto ereditata dal padre Luigi, così come il Milan). In sintesi: Carraro non è Agassi e la Audisio non è J.R. Moehringer, ovviamente, non si capisce quindi il senso di un’operazione comunque studiata visto che Mai dopo le ventitré lo abbiamo visto bene esposto in tutte le librerie. Siamo in quella zona dell’editoria, quella dei romanzi di Veltroni o di Franceschini, in cui ci sono (non) autori che bisogna tenersi buoni perché nella vita non si sa mai. Certo non riusciamo a immaginarci una persona sana di mente (noi non lo siamo visto che il libro, come tutti quelli recensiti, lo abbiamo comprato) interessata alla vita di Carraro, personaggio che non è stimolante nemmeno in negativo.

Di questa autobiografia pettinata salveremmo soltanto le parole, del protagonista o dell’autrice non importa, su Montanelli con il quale Carraro ebbe (non lo sapevamo) una lunga frequentazione e in certi periodi quasi un rapporto filiale. Imbarazzanti le pagine sugli anni di Calciopoli, con il tranquillo racconto di come venissero scelti allenatori della Nazionale e designatori. Ma anche qui nessuna rivelazione, fa soltanto impressione vederlo raccontato da chi era presidente della FIGC. Un po’ troppo sintetica la parte sul Milan, dove in proporzione ai soldi spesi fece molto bene, soltanto tratteggiate le antipatie (Nebiolo, Gattai e pochi altri: quasi tutti morti), quasi inesistente il privato. Il titolo del libro si riferisce alla sua abitudine di non fare tardi la sera. Ma nello sport italiano Carraro si è invece trattenuto troppo a lungo.

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