Europe, il final countdown non è ancora iniziato

30 Novembre 2017 di Stefano Olivari

Degli Europe abbiamo sempre amato il non essere mai stati ‘giusti’. Troppo pop per gli amanti dell’heavy metal e dell’hard rock in genere, ed in ogni caso con il gravissimo handicap di non essere angloamericani, troppo metallari per orecchie abituate a cazzatine elettroniche e lagne cantautorali. Ci riferiamo a parametri anni Ottanta, perché il gruppo scandinavo (tre svedesi e due norvegesi) ha avuto una eccellente carriera anche dopo ed è arrivato ai giorni nostri con un nuovo album, Walk the heart, che come gusti personali collochiamo al terzo posto nella loro produzione dopo The Final Countdown (terzo album in studio) e il folgorante Wings of tomorrow (secondo), pur avendo fatto a suo tempo (1991) una malattia per Prisoners in Paradise.

Ieri sera eravamo ovviamente schierati all’Alcatraz di Milano per la tappa italiana del loro Walk The Heart Tour, un anno dopo i concerti per il trentennale del loro album più famoso. Un’esibizione con tempi umani, un’ora e mezzo ipercompressa che non avrebbe annoiato nemmeno Pupo (immortale il suo “Ai concerti mi rompo i coglioni, anche a quelli di Morandi che è mio amico e mi ha prestato due miliardi”), nessun discorso politico (non serve, il metallaro è di destra e il nostalgico anni Ottanta anche di più), da parte di Joey Tempest il minimo sindacale di ruffianerie nei confronti del pubblico di casa (“Milano mia casa” e “Va’ a ciapà i ratt”), una scaletta che ha premiato il nuovo album ma senza dimenticare le tasse fisse: da Rock The Night (terza canzone) a Carrie, da Cherokee alla chiusura obbligatoria con The Final Countdown. Una delle caratteristiche del rock è che a parità di canzone il live sembra meglio del disco registrato in studio, e gli Europe non fanno eccezione anche perché l’età gli consente una presenza scenica più che buona.

Fra l’altro da quando nel 2003 si sono rimessi insieme, dopo oltre un decennio di stop, hanno sempre giocato con la formazione tipo: Tempest voce e chitarra, John Leven al basso, Mic Michaeli alle tastiere, John Norum alla chitarra e alla batteria il solito fortissimo Ian Haugland che si è sparato il suo assolo con il sottofondo del Gugliemo Tell di Rossini: performance eccezionale, con il cuore spezzato a poche settimane dalla morte del figlio ventottenne. Il massimo dell’emozione è stato però sempre per Carrie, la canzone da accendino per eccellenza, che ha scatenato i peggiori istinti dei possessori di smartphone come ormai è costume in quasi tutti i concerti: ma a chi la faranno vedere questa roba girata male? O magari la speranza è di diventare gli Zapruder de’ noartri, nel caso qualcuno si metta a sparare.

Come al solito interessante il pubblico, diversamente staremmo a casa isolati dal mondo con il nostro pregevole Technics tangenziale. Facile osservare che gli Europe non hanno un pubblico dell’età di mezzo, come capita a rockstar ottuagenarie anche di infimo livello: ci sono i cinquantenni che li ascoltavano ai tempi e in parte hanno continuato a farlo, in molti casi ci sono i loro figli, ma pochi in Italia si sono appassionati a questo strepitoso gruppo in altre fasce anagrafiche. Di sicuro ha contato lo scioglimento del ’92: non facendo più dischi, nemmeno brutti, l’immagine cristallizzata degli Europe è quella degli anni Ottanta, e tutto ciò che hanno fatto in questo millennio, con album anche oltre il milione di vendita in piena era mp3 e streaming, da noi è arrivato poco visto che è difficile classificare gli Europe, anche se chi li ha messi nel cosiddetto Glam Metal (il mondo di Bon Jovi e Def Leppard, per dire) è secondo noi nel giusto. Di certo hanno mantenuto la carica che avevano all’inizio degli anni Ottanta, lanciati da uno dei primi talent show della storia televisiva. Dicendo che ascolti gli Europe non fai una buona impressione ai fan di alcun genere musicale? È indubbiamente vero, ma non ce ne importa niente. Il loro final countdown non è ancora iniziato e forse, chissà, nemmeno il nostro.

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