Roger Federer, l’Australia dentro

9 Agosto 2017 di Simone Basso

I trentasei anni di Roger Federer ci obbligano a uno sforzo in più di immaginazione. Un personaggio di tale caratura ispira anche i profeti dell’ovvio: una contraddizione se applicata a un atleta, a un’icona dello sport, che ha fatto della meraviglia istintiva sul campo una peculiarità, un marchio di fabbrica. L’ottavo successo a Church Road è stato dunque l’occasione propizia di riposizionamento, sul carro (affollato) del vincitore, degli stessi che un anno fa – dandosi di gomito – imbastivano coccodrilli agonistici sul basilese.

Come se Federer, più o meno dal 2009, fosse ancora paragonabile agli altri… In rete, solo a scorrere col mouse la lista dei primati assoluti del nostro, si rischia una tendinite al gomito destro. Meglio raccontare un altro Federer, più distante nel tempo, lui che ci illude che la clessidra con la sabbia si possa manomettere,

Il Roger imberbe, quello che si ossigenava i capelli, distratto dal troppo talento, confuso e felice. Un bordone originale, con Basilea centro dell’universo, ma il Sudafrica di mamma Lynette, l’Australia e l’Italia a mo’ di deja vu ricorrenti. Peter Carter crebbe nella Barossa, Australia meridionale, in una famiglia di appassionati del tennis. Classe 1964, promettente nelle categorie giovanili, ebbe una carriera zeppa di infortuni, giocò più il doppio del singolare e si riciclò presto come allenatore. Carts vide per la prima volta Federer quando Rogi aveva appena nove anni. Tornato a casa, raccontò ai suoi di aver conosciuto “un talento gigantesco”. Nel 1992 divenne il suo coach: avrebbe accompagnato Roger fino al circuito ATP dei Grandi.

Il Federer degli esordi professionistici era un rompicapo, soprattutto per sé stesso e Carter, a volte per gli avversari. Bizzarro nel perdere il filo della partita, incaponendosi in soluzioni tecniche circensi. Poi, c’erano momenti dove appariva la luce (…): viveva di controbalzo, distanziandosi così (subito) dal passato e dal presente del tennis. Comparivano quarti d’ora di onnipotenza assoluta: in quei pertugi, mostrava tutti i colpi della storia, e qualcuno inventato lì, sul posto, con una fluidità d’azione mai osservata prima. Il Federer del boom non avrebbe fatto altro che portare quei quindici minuti a quasi un’ora, tutti i maledetti giorni dell’anno e su qualsiasi superficie. Arrivò a gestire i match giocando a specchio con l’avversario: ogni cosa fatta dal collega, Roger la eseguiva meglio.

Non pensiamo sia un caso che un aussie sia stato il maestro di Federer. Roger, fuori tempo massimo, è l’ultimo dei grandi australiani, nato per errore (e buona sorte del tennis) mezzo secolo dopo quella nidiata.
Lew Hoad, Ken Rosewall, Rod Laver. Oltre che essere la sublimazione – e la summa – di un concetto del gioco inventato da un americano negli anni Venti: Bill Tilden. Il Mago Merlino annulla il tempo, lo inganna o forse abita uno scarto temporale, coniugando colpi moderni, iperviolenti, a gesti (bianchi) di eleganza classica. Lo slice, gli approcci a rete, la varietà sono qualcosa di Carter che Federer, ragazzino, ha elaborato ed espanso senza soluzione di continuità fino a oggi.

Roger esordì in Coppa Davis nel primo turno del 1999, contro l’Italia a Neuchatel: schierato nel secondo incontro, sconfisse Davide Sanguinetti in quattro parziali. Paolo Bertolucci, il capitano italiano, nel post partita si sbilanciò: “Questo ragazzo di diciassette anni diventerà il numero uno del mondo.” Ancora l’Italia di mezzo, che nel ’97 gli diede il primo titolo junior (a Prato, sul rosso, contro Luka Kutanjac), la vernice da vincitore di un torneo pro. Nel 2001 a Milano, sul sintetico velocissimo indoor, battè Julien Boutter.

Quando Federer ingaggiò Peter Lundgren come nuovo allenatore, Carter rimase in Svizzera, lavorando con la Federazione. Nel maggio 2001, a Basilea, Carts si sposò con Silvia. Scelto dai giocatori come capitano elvetico di Davis, mise da parte l’incarico quando la moglie scoprì di avere un cancro ai linfonodi.
Dodici mesi di terapie e Silvia guarì. Decisero allora di festeggiare l’avvenimento con una gita in Sudafrica.
Il primo dì agostano del 2002, il 31 luglio era il compleanno della consorte, Carts – su un Land Rover – apriva un piccolo corteo seguito, poco dietro, da un mezzo che ospitava Silvia. Nelle vicinanze del Parco Nazionale di Krueger, un minibus che procedeva in direzione opposta sbandò: per evitarlo, l’auto di Carter infranse una staccionata e si ribaltò nel letto di un fiume. Morirono sul colpo, lui e il conducente del Land Rover. La notizia raggiunse Federer a Toronto. Svuotato di energie, scese in campo per un doppio col sudafricano Wayne Ferreira. Lo persero, Roger aveva il lutto al braccio: tornò a casa, a Basilea, per la cerimonia funebre che si tenne il 14 agosto.

Federer divenne Federer piano piano, faticando: quella fu l’ultima estate da apprendista stregone.
Nessuno possedeva quel dono, ma troppe volte lo smarriva. Mettere assieme genio e continuità rimane l’impresa più difficile dello sport moderno. Dopo una sequenza di sconfitte, Federer ricominciò a vincere.
Lo ritenevamo ancora, a torto, uno da gare in linea, da settimana di ispirazione divina, piuttosto che da gare a tappe, da Slam in serie. Da lì a Wimbledon 2003 completò la metamorfosi. Il Mago Merlino che sconfisse Mark Philippoussis sul Centre Court, la prima e ultima domenica dei Campionati, in un pomeriggio che stilisticamente sembrò un revival degli anni Ottanta, era già il Re.

Quest’inverno, laggiù estate australe, due settimane leggendarie in quel di Melbourne. Un major che ha vissuto almeno sette partite di livello altissimo e riproposto l’ennesimo Federer contro Nadal. L’impressione è stata di assistere a uno Zeitgeist, a un momento che riassumeva un’epoca nella sua totalità.
Sotto 1-3 nel quinto set della finale, opposto alla nemesi di Manacor, Federer – giocando di anticipo e verticalizzando, sempre – è andato a prendersi la vittoria che più gli spettava. Quella che definiva il Federerismo, la chiusura del cerchio. L’emozione, nella bolgia, l’ha condivisa col suo box: la consorte Miroslava, importantissima, il preparatore atletico (da una vita) Pierre Paganini, il capitano di Davis Severin Luthi, il nuovo coach Ivan Ljubicic, gli amici.

Toccano la coppa del vincitore anche una coppia, anziana ma non troppo. Tutti gli anni, durante gli Australian Open, Roger prenota loro l’aereo e una camera d’albergo. Si chiamano Bob e Diana: sono il babbo e la madre di Peter Carter. Oggi, 8 agosto, Federer compie gli anni. Domani li avrebbe fatti Carts.

(Pubblicato da Il Giornale del Popolo l’8 agosto 2017)

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