Un quinquennio per nulla, Éric Zemmour e la Francia della sharia

7 Luglio 2017 di Indiscreto

Fra gli uomini-simbolo del politicamente scorretto Éric Zemmour è il più scorretto di tutti, perché non lascia speranze al proprio paese e parla della fine della Francia come se fosse uno storico del 2217 e non un giornalista di oggi. Un qualcosa di già avvenuto, insomma, di cui parlare come noi parliamo della fine dell’Impero Romano. Ebreo di origine algerina, Zemmour è dal 2014 uno degli intellettuali più seguiti dai francesi e meno amati dai politici, anche da quelli di destra, messi di fronte alla loro visione ristretta ed economicistica della società, come se un punto di PIL in più potesse rispondere alla domanda ‘Chi siamo?’. Dal 2014, da quando è uscito il suo Il suicidio francese, Zemmoour è diventato un personaggio pop ed è entrato nel mirino, non solo metaforico, dei fan del multiculturalismo. Rispetto al suo libro più famoso questo Un quinquennio per nulla, uscito in Italia per Enrico Damiani Editore, ha riferimenti più aggiornati (arriva alle soglie dell’ascesa di Macron) e toni ancora più pessimistici. Molti i rimandi alla realtà francese, ma tutti comprensibili ad un normale sfogliatore di quotidiani, con evidenti differenze ed analogie (sottolineate dallo stesso autore) rispetto a quella italiana e di altri paesi europei: il che non toglie che il libro sia interessantissimo anche per i non francesi, visto che in tanti paesi un vero dibattito su identità nazionale e multiculturalismo non è mai iniziato. Buonismo o repressione, in base alle suggestioni del momento ma senza una direzione. Si preferisce, da destra, ridurre tutto a criminalità e terrorismo come con il sottinteso di una soluzione militare in funzione rassicurante, mentre da sinistra lo scollamento dai ceti popolari impedisce anche soltanto di pronunciare certe parole. Tutti accomunati dal mito di soluzioni ‘tecniche’, fingendo di non sapere che ogni scelta è politica.

La tesi centrale di Zemmour, non soltanto in questo ultimo suo libro, è che la minaccia principale per una nazione non sia l’immigrazione ma il mutamento sostanziale nella composizione culturale, religiosa ed etnica dei suoi cittadini. L’immigrazione, in qualsiasi modo la si gestisca (e anche Macron lo fa in maniera molto restrittiva, ben oltre Salvini), è in ogni caso qualcosa che arriva dall’esterno. Le banlieu parigine o certi quartieri di Marsiglia spiegano invece chiaramente che il problema invece è interno: francesi di passaporto che non si sentono francesi e che considerano la Francia il loro peggior nemico, nella migliore delle ipotesi un estraneo. Situazione figlia in parte della storia coloniale del paese e in parte della rimozione-sottovalutazione del problema nel nome di una tolleranza di comodo. Che ha relativamente funzionato, fra gli applausi delle élite culturali, fino a quando le dimensioni quantitative del problema non sono esplose. Per pura comodità e vigliaccheria, dice Zemmour, è stato scelto il multiculturalismo invece dell’assimilazione, con il risultato di produrre ghetti sempre più grossi e che non possono nemmeno più essere definiti ghetti: “Tante zone della Francia non sono Francia, ma un paese straniero”.

Il libro è diviso in due parti: la prima è una summa del pensiero di Zemmour, la seconda, ‘Cronache dello scontro di civiltà’ un insieme di racconti di episodi piccoli e grandi che spiegano la Francia di oggi. Non c’è soltanto analisi politica, ma anche tanta passione, fin dalla prima riga: ‘Le bandiere non sono mai state semplici pezzi di stoffa’. Come sempre il problema non sono le scelte, ma le non scelte, per questo agli occhi di Zemmour il politico peggiore della storia di Francia è François Hollande: se ne sono accorti anche gli elettori socialisti, del resto, che hanno ridotto il partito ai minimi termini. Hollande è il politico simbolo di quel liberismo, di destra e di sinistra, che ritiene le persone qualcosa di indifferenziato, senza idee né identità, qualcosa che lo Stato può gestire tecnicamente senza urtare la sensibilità di nessuno. Una visione del mondo in gran parte anche di Macron, del resto, osannato dai ‘moderati’ di casa nostra. Le sempre minori tutele dei diritti dei lavoratori hanno portato, secondo Zemmour, a discreti e sterili successi elettorali di estrema destra ed estrema sinistra, senza effetti pratici, ma soprattutto a dare dignità politica ad un individualismo egoistico e ottuso che non è certo nello spirito della Rivoluzione Francese.

Uno scorretto non poteva che amare un grande scorretto come De Gaulle, citando una sua famosa frase: “È un bene che ci siano francesi gialli, francesi neri e francesi marroni. È la dimostrazione che la Francia è aperta a tutte le razze e ha una vocazione universale. Ma a condizione che restino una piccola minoranza. Altrimenti la Francia non sarebbe più la Francia. Siamo comunque prima di tutto un popolo di razza bianca, di cultura greca e latina e di religione cristiana”. La chiave del discorso di Zemmour, razza a parte, è tutta qui: possiamo anche fare grandi discorsi anti-europei e sulla sovranità, tipo Le Pen, ma tutto è superato dalla questione dell’identità. Se un domani non troppo lontano 30 milioni di musulmani francesi voteranno democraticamente per l’obbligo di indossare il burqa, soltanto una dittatura potrebbe preservare la laicità dello stato. E una dittatura sarebbe la fine della Francia. Per questo Zemmour, che siamo andati anche ad ascoltare  di persona durante il recente ‘Tempo di libri’, ritiene che una presa di coscienza di chi ama la Francia sia auspicabile (del resto lui si batte per questo) ma che per il suo paese sia ormai troppo tardi: “Le fondamenta di quanto sta accadendo sono state messe trent’anni fa, poi Hollande ha fatto peggio dei suoi predecessori ma non è lui l’unico colpevole. Onestamente invidio l’Italia, che è ancora in tempo a cambiare il suo destino, in questo senso è come la Francia di trent’anni fa”. Curiosità: Zemmour, praticamente un sosia di Charles Aznavour, parla a voce bassissima e durante il dibattito (presente anche Massimo Giannini di Repubblica, con tesi diverse) si è reso conto che buona parte del pubblico lì presente gli era ostile. Infatti in tanti erano in sala per prendere posto in vista della successiva presentazione, la cui star era Laura Boldrini...

Secondo Zemmour l’islamizzazione della Francia è una tendenza che sembra irreversibile, l’incertezza è soltanto sui tempi in cui questo si tradurrà in un progetto politico. Chi continua considerare l’Islam e in generale l’immigrazione come un problema di ordine pubblico si sente rassicurato da notizie come la lotta all’Isis e ad elementi radicalizzati, pur doverosa, ma perde di vista fondamentalmente sé stesso. La Francia è un’idea che merita di essere difesa? Se sì, difendiamola. Prima di tutto con le parole perché lo scontro di civiltà si vince con il pensiero (a patto di averne uno, chiaramente) Impossibile e ingiusto sintetizzare un libro di 500 pagine pieno di domande, più che di risposte, e quindi interessante a prescindere. Come al solito abbiamo amato parti che ci fanno vedere in una luce nuova fatti o personaggi straconosciuti. Fra questi Margaret Thatcher, che distrusse alcune strutture sociali del vecchio Regno Unito (strutture di cui lei aveva beneficiato, essendo partita davvero dal basso) portando il paese in una direzione molto lontana rispetto alle sue intenzioni. Regno Unito che fra l’altro rischia seriamente di essere la prossima Francia. Come al solito l’Italia è stata fortunata, nonostante i geniali accordi internazionali di Renzi e Alfano rivelati dalla Bonino, basta che ce ne rendiamo conto in tempo.

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