Luca Vercesi: difendere gli animali, vivere da uomini, sparare ai cattivi

20 Giugno 2017 di Glezos

Trovarsi nella savana africana imbracciando un AK47 a caccia di bracconieri. Non propriamente una passeggiata di salute, ma a Luca Vercesi ha cambiato la vita. Non ci sentivamo dai tempi della scuola, e rivederlo sul web armato in scenari quasi salgariani non mi ha sorpreso. Che il mio amico Luca Vercesi si occupasse di bracconaggio in Africa insieme agli altri istruttori dell’italianissima Poaching Prevention Academy (PPA) è sembrato ai miei occhi l’ovvia proiezione di una personalità spiazzante come la sua. Il migliore motivo per reincontrarci e parlarne nel suo ufficio milanese, alla vigilia della sua nuova spedizione nel continente nero.

Glezos: Come ti sei ritrovato a occuparti direttamente di bracconaggio in Africa?

Luca Vercesi: È stata una cosa completamente casuale. 7-8 anni fa ho fatto un bilancio della mia vita, e ho deciso che forse era meglio cominciare a fare qualcosa per gli altri. Ho iniziato in maniera abbastanza banale distribuendo coperte per i senzatetto in centro a Milano, pasti nelle mense e cose di questo tipo. Ma mi mancava l’azione, così ho incominciato a fare il volontario in ambulanza. Ma sentivo che mi mancava sempre un pezzo. Poi un giorno sento via Facebook un carissimo amico che vive da una ventina d’anni in Africa che mi dice: “C’è un nostro amico che qui sta formando la Poaching Prevention Academy, che si occupa di antibracconaggio: se ti interessa fare qualcosa per gli altri attraverso un po’ d’azione, parla con lui”. Così quattro anni fa ho avuto il primo incontro ed è nata questa mia avventura. Con le armi avevo già una certa pratica: porto d’armi, utilizzazioni, tiro pratico eccetera, anche se poi ho dovuto abituarmi alle piattaforme che usano in Africa come la AK (il classico Kalashnikov, che lì è molto diffuso) e altre ancora. Ho iniziato in Italia con il primo corso di formazione di volontari per apprendere le varie tecniche tattico-pratiche. Nel frattempo -anche grazie al mio retaggio nel 118 – avevo iniziato a fare corsi di medicina tattica, ovvero come soccorrere i feriti in situazioni di combattimento in zone remote, perché devi tenere presente che in Africa tutto è remoto: salvo nei grandi centri, tutto ciò che succede è lontano o a diverse ore di viaggio da qualsiasi circuito di civiltà per così dire normale. Per cui formare i ranger dal punto di vista medico sanitario è stato il mio primo compito nella PPA. Poi ho iniziato a viaggiare, e mi sono reso conto che l’esperienza che puoi fare in Italia devi poi farla combaciare con l’ambiente in un modo o nell’altro, perché lì l’ambiente non ti permette niente e qualsiasi cosa che ti può succedere accade a distanza, e ci metti due ore e mezza per arrivare al primo ospedale. Tieni presente che io sono anche una ‘field guide’, ovvero una guida, qualifica che ho voluto ottenere per essere professionale, perché devo potere riconoscere la traccia di una iena da quella di un leone, altrimenti la mia credibilità con i ragazzi che formo va a farsi benedire. Ma io innanzitutto addestro i ranger di parchi nazionali e riserve, mi rivolgo esclusivamente a loro e il mio compito è quello.

G: Hai mai fatto la guida per turisti?

LV: No. Io adoro i viaggiatori, non i turisti. Senza voler offendere nessuno, i turisti non mi fanno impazzire e per un motivo ben preciso. Purtroppo il turista ha questa arroganza: io ho pagato i 2.000, 3.000 o 5.000 dollari e voglio vedere tutto. Ma in Africa non sei allo zoo: ci sono animali che puoi vedere facilmente, altri no perché non è il periodo, il giorno, l’orario o la stagione. Il leopardo ad esempio è un animale schivo e notturno, riuscire a vederlo è davvero casuale: puoi andare nella sua zona, ma non è detto che tu riesca a vederne uno. Così il rinoceronte, bianco o nero, anche se contrariamente alle convinzioni la differenza tra rinoceronte bianco e nero è la dimensione e non il colore, che non c’entra: la denominazione nasce da un errore di traduzione tra il suono dei termini ‘wide’-ovvero ‘largo’, riferito al muso dell’animale- e l’erroneo ‘white’, bianco appunto. Il rinoceronte nero se ne sta riparato all’interno del bush ed è un po’ più piccolo (ma sempre intorno ai 1.500 chili), mentre il bianco vive all’esterno. Sono animali docilissimi, è molto difficile che si arrabbino o si difendano: avvicinarli è semplice, e di conseguenza è molto facile abbatterli.

 G: Domanda ovvia: quali sono i rischi?

LV: I rischi sono prima di tutto ambientali, nel senso che l’incontro col bracconiere è sporadico. Il problema è gestire il leone, il ragno, lo scorpione, l’insetto, la malattia piuttosto che il colpo di sole, che per noi europei è il pericolo principale. Dal punto di vista dei rapporti con la popolazione, noi italiani non abbiamo un passato coloniale, e questo è un aspetto che gioca a nostro favore. In Congo mi è capitato un primo approccio dove mi sono sentito chiedere con sospetto: “Di dove siete? Non siete francesi? Neanche belgi, vero?”. “No, siamo italiani”. “Aaah, bene”, e l’atteggiamento era completamente diverso, perché a noi nessun congolese, Zulu o altro dirà mai: “Tu hai sparato a mio nonno”, “Tu ci hai fatto quello che ci hanno fatto gli inglesi” e cose del genere. Abbiamo anche il “vantaggio” – tra virgolette – di essere bianchi, perchè questo dà un’aura di saccenza, del tipo “io ti dico una cosa, e tu mi ascolti”. Per loro se sei bianco hai comunque ragione, perché sono oltre 400 anni che sono abituati a trattare con il bianco che ha sempre ragione: giusto o sbagliato che sia, nel nostro caso è un grande vantaggio.

G: L’accusa di colonialismo è dietro l’angolo.

LV: No, e ci tengo a sgombrare il campo dagli equivoci. In riunioni e convegni spesso mi capita di fare una premessa: ragazzi, è brutto dirlo ma in Africa ai tempi il colonialismo sotto un certo punto di vista era una grossa livella, perché quello che sta accadendo oggi è ancora peggio. Cos’è successo nel frattempo? Che le potenze coloniali hanno fatto i conti della serva: perché tenersi 30.000 soldati e occupare un paese quando con molto meno paghi la tribù che conta e che fa il lavoro sporco? Purtroppo il problema è che l’Africa è divisa in etnie e nessuna va d’accordo con l’altra, come in Italia ai tempi dei comuni, con Firenze che fa la guerra ad Arezzo, Milano contro Venezia e via di questo passo. Questo fa sì che dagli anni Sessanta in poi si è andati semplicemente a corrompere l’etnia che conta, dandogli un riconoscimento politico e un appoggio militare, perchè quello che volevano era proprio questo. Per fare un esempio, in questo momento in Sudafrica c’è un grosso scontro sociale tra gli Xhosa e gli Zulu, che sono le due etnie dominanti. E se sei un’ etnia dominante significa che prendi i finanziamenti dall’Europa e dal mondo occidentale. Sento dire ai nostri politici che bisogna dare più denaro ai paesi dai quali le persone fuggono, e questa è una follia perché quelli che emigrano non fanno parte delle etnie dominanti, ma sono i poveracci e quelli che non avranno mai un futuro all’interno dei loro confini. Noi diamo i denari e il problema non si sposta, anzi: ai poteri che contano si apre un canale che gli fa dire: “Uuuuhh, bello, perseguitiamo ancora di più le altre etnie, così a scappare saranno sempre di più, mentre nel frattempo ci daranno sempre più soldi”.

G: In che zone vi muovete?

LV: Principalmente in Namibia e Sudafrica, ma anche Mozambico, Malawi e Kenya. Il nostro compito principale è quello di formare i rangers dei parchi nazionali e delle riserve private per metterli nelle condizioni di fare meglio il loro lavoro. Sono molto contento di fare questa intervista, perché il problema del bracconaggio è poco conosciuto e soprattutto in Africa è un dramma terrificante, perché innanzitutto sta portando all’estinzione di rinoceronti ed elefanti. Gli africani basilarmente non pensano al domani, ma solo all’oggi: a loro non interessa che un rinoceronte renderebbe più da vivo che da morto, dato che il turismo che impiega 100 milioni di africani è incentrato su animali che puoi vedere solo lì. Basti un dato: a inizio anno in Africa è stato stimato un numero di circa 300.000 elefanti, quando a fine Ottocento la stima era oltre i 10.000.000. Gli stessi leoni a inizio Novecento erano intorno ai 7.000.000 mentre oggi sono meno di 20.000. Stanno depredando tutto: un po’ è colpa dell’urbanizzazione che comunque si sta espandendo, ma da 10-15 anni a questa parte è il bracconaggio ad avere assunto dimensioni spaventose. Soprattutto per i rinoceronti, e la ragione è palese: il costo al chilo di un corno di rinoceronte al mercato finale è intorno ai 90.000 dollari, quindi se tieni presente che il peso di un corno va dagli 8 ai 12 chili questo significa che un rinoceronte maschio, adulto e bianco vale intorno al milione di dollari. In più, il mercato della medicina cinese e soprattutto cambogiana utilizza la cheratina del suo corno per tutto: impotenza, tumore e quant’altro. Ed è una truffa, dal momento che il corno è in pratica un grosso capello che non ha proprietà medicali di nessun tipo. Lo sostiene anche un’antica leggenda africana, che racconta che in origine Rinoceronte, senza articolo, nasce senza armi per difendersi, e quindi piange. Scimmia, l’animale più intelligente del gruppo, gli chiede il perché delle sue lacrime. “Non ho artigli, non ho zanne, non posso difendermi”. Scimmia allora parla con gli altri animali mentre Rinoceronte dorme: insieme prendono un po’ di pelo, lo impastano con del fango e gli creano un corno sulla fronte, e lui al mattino si risveglia felice di potersi finalmente difendere.

G: Da dove nasce la convinzione che il corno di rinoceronte sia una panacea per tutti i mali?

LV: È una volontà di effetto placebo nata da questo animale misterioso, retaggio dell’epoca dei dinosauri. In più, malauguratamente, nei primi anni Duemila la moglie di un’importante figura istituzionale asiatica dichiarò di essere guarita da un tumore assumendo polvere di rinoceronte col tè, e da lì è partito tutto. La cosa brutta di questa situazione, che dovrebbe toccarci come europei soprattutto in questo periodo, è che il mercato è gestito da Boko Haram da una parte e Al-Shabab dall’altra: il terrorismo ne ha fatto una fonte di guadagno, così il commercio e smistamento di corni di rinoceronte, zanne di elefante, pelli di giaguaro eccetera sono gestiti da queste organizzazioni criminali. In più vi sono ulteriori complesse tematiche legate allo sfruttamento del terreno, che di fatto stanno distruggendo l’economia di base dell’Africa. Un esempio su tutti. Nel nord della Tanzania ci sono pochissimi fabbricanti di zanzariere, in una zona in cui le zanzare costituiscono un problema endemico. Succede che la comunità mondiale decide di regalare alla Tanzania 100.000 zanzariere comprate in Cina, che stroncano il mercato dei pochi produttori locali. Il problema è la scarsa qualità di queste zanzariere regalate, che si disintegrano nel giro di qualche anno in una zona in cui nessuno è in grado di ripararle. Quindi spesso pensando di fare una cosa giusta si crea un danno. Andiamo in Africa, rimaniamo colpiti dai sorrisi stupendi di questi ragazzini e gli regaliamo il Chupa Chups, ma li stiamo danneggiando: uno oggi, uno domani e dopodomani in bocca ai ragazzini si formano carie che nessuno curerà, perché lì non ci sono dentisti.

G: Com’è regolata la PPA a livello economico?

LV: Ci pagano o siamo finanziati per determinati progetti, ma molto è su base volontaria. Sul nostro sito Internet raccogliamo fondi per adozioni di rinoceronti e donazioni libere, e in più ci mettiamo del nostro: ad esempio mi danno vitto e alloggio e il volo aereo me lo pago io. Mi faccio due/tre settimane di lavoro nell’headquarter di un determinato parco nazionale a formare i ranger di una riserva, con loro che ci mettono tanta buona volontà: c’è quello molto in gamba, quello un po’ meno. Ma i locali spesso provengono da etnie diverse, e a volte abbiamo problemi di comunicazione anche perché non tutti parlano inglese, quindi ci affidiamo a un interprete. Noi cerchiamo di formarli e di fare una valutazione sul tipo di persona, perché molto spesso i bracconieri sono ranger che si tolgono la divisa, oppure sono i loro amici. Così si sale di grado: ci capita di ritornare un paio di volte all’anno in una riserva perché esistono dei programmi di preparazione veri e propri, che la riserva ci finanzia. Tutto questo grazie al fatto che Davide Bomben, il nostro capo, lavora da moltissimi anni in ambito africano: 7-8 anni fa è nato per caso questo esperimento in una riserva in Namibia, poi il proprietario della riserva ha parlato con alcuni suoi colleghi e da lì è nato un passaparola che ci ha portato fin qui. Siamo in 7-8 addestratori, stiamo crescendo e abbiamo molte richieste, perché ci viene riconosciuto che la nostra organizzazione è un mix di conoscenze militari e cognizioni base della natura sommate al fatto che – ripeto – siamo italiani. E questo oltre a essere gradito non è mai stato motivo di contrasto, anzi, da buoni italiani organizziamo la serata conviviale con spaghettata, eccetera: te li vedi inglesi, francesi o rhodesiani fare la stessa cosa? Da lì nascono rapporti che proseguono nel tempo, anche tramite Facebook, con i ragazzi del posto che ti mandano le foto dei figli, gli auguri di compleanno eccetera. E questo è un buon auspicio, perché significa che hai fatto un lavoro che ha prodotto dei risultati.

G: Che requisiti deve avere un aspirante ranger?

LV: Innanzitutto buona volontà e voglia di farlo. Avere già un background di preparazione non è obbligatorio: a volte arrivano persone con qualche esperienza di base che va solo perfezionata, in altri casi si parte da zero. La prima cosa da evitare è che si sparino su un piede o su quello della persona di fianco. Fatto questo, devono capire come utilizzare al meglio e come manutenere gli strumenti che hanno a disposizione, perché soprattutto nei parchi nazionali i soldi sono pochi e gli strumenti sono quello che sono, nel senso che ci è capitato di dovere cannibalizzare i pezzi di 20 armi per ripararne 100, cosa che ho imparato a fare sul posto. In più c’è gente che non ha mai sparato una volta in vita sua: nell’ultima missione in Namibia la mattina abbiamo formato sei persone che non avevano mai preso un’arma in mano.

G: Come si svolge l’addestramento con le armi per chi parte da zero?

LV: Con tanta pazienza. All’inizio devono prendere confidenza in bianco, cioè senza colpi. Gli insegniamo innanzitutto le norme base di sicurezza: come tenere l’arma in mano, come camminare armati e come interagire con le altre persone. Dopo i primi quattro giorni iniziano a capire come caricare e scaricare l’arma e come muoversi insieme senza puntarla contro qualcuno: sono quattro norme semplici e basilari, ma dobbiamo stargli un po’ addosso. Poi iniziamo a farli sparare a una sagoma a una quindicina di metri di distanza, e nell’arco dei 9 giorni del corso il candidato inizia a sapersi muovere in due e a sparare. Il tutto in sicurezza, che ribadisco è la cosa più importante. Negli step successivi si cerca di curare precisione, impostazione eccetera, mentalizzando sempre che l’arma non è un nemico ma uno strumento di lavoro che non va mitizzato né demonizzato. Uno strumento di lavoro che non ti serve per farti il selfie e postarlo su Facebook ma per proteggerti da quello che c’è attorno, perché se fai un incontro spiacevole -non necessariamente con un bipede – quella è la tua unica difesa.

G: Ti è capitato di usarla contro qualcuno, bipede o quadrupede?

LV: Grazie a Dio no.

G: Chi fornisce le armi?

LV: Le armi sono comprate dalle riserve private, e restano di loro proprietà. In Africa ogni stato ha la sua legislazione in merito, l’adagio che vuole che vai laggiù e fai il traffico d’armi è una stupidaggine: in realtà, dopo i colpi di stato degli anni Sessanta e Settanta la regolamentazione è molto rigida. In Africa i prezzi delle armi sono elevati, più che in Europa, e anche per un locale non è facile ottenere il porto d’armi: puoi avere licenza e armi per la caccia, ma quelli che sono considerati fucili d’assalto come il Kalashnikov li puoi comprare solo dopo una lunga e complicata procedura. Questo non vale per le game reserve, le riserve private che possono acquistarle per motivi di sicurezza. Le armi arrivano quasi interamente da Russia e Cina con piattaforme tipo AK47, che nell’ambiente è la ‘bicicletta’ più comune anche perché non richiede una gran manutenzione ed è di facile utilizzo.

G: Avete concorrenza da parte di altre associazioni?

LV: L’abbiamo avuta, perché organizzazioni di questo tipo esistono ma solitamente sono meteore. Abbiamo avuto francesi, americani, inglesi che però non hanno funzionato, forse per l’eccessivo militarizzare il problema: sono arrivati in Africa superesperti che hanno pensato alla situazione solo in termini militari e non ambientali, perché se non entri nella vera mentalità africana non vai da nessuna parte. Mi è capitato di sentirmi dire da ex militari di ruolo: “Ma qui in Africa non ci sono condizioni di sicurezza come in Afghanistan o in Iraq”. È vero: lì sei da solo col tuo fucile, la tua squadra e la natura, e purtroppo ti puoi anche far male. Ricevo moltissime lettere di gente che si presenta scrivendo “Sono un ex militare, ho fatto 4 missioni di qua e di là, ho fatto 500 lanci da paracadutista, vengo giù e faccio tutto”. No, tu non vieni giù perché se non sai distinguere il rinoceronte bianco da quello nero dove vuoi andare? Dove vai se non sai che se c’è quell’uccello in giro vuol dire che quel dato animale sarà in giro anche lui, che se è la stagione delle piogge ci saranno più animali in movimento oppure meno, che se c’è o non c’è luna piena potrò o non potrò uscire? E il bracconiere chi è, dove vive, come si muove? E quando lo prendi cosa fai, lo torturi?

G: Esiste un ID del bracconiere-tipo?

LV: Il bracconaggio è di diversi tipi. C’è un bracconaggio di sussistenza, che non trovi all’interno delle game reserve, che sono di dimensioni relativamente piccole. Ma in parchi nazionali che sono grandi come tutta la Lombardia ci sono una serie di villaggi, e chi li abita non va al supermercato: sono abituati a fare la spesa nel bush, quella che noi chiamiamo savana, posizionando dei lacci in maniera molto semplice, come fanno da migliaia di anni. E in questi lacci (gli snare) ci può capitare di tutto: la gazzella, l’impala o un animale più piccolo, e fin qui tutto bene, ma può pure capitarci la zampa di un elefante, che dopo una settimana con questo filo d’acciaio che gli sega la zampa va in setticemia e muore. Oppure ci può capitare la testa del leone che ci rimane in mezzo strangolato. E questo è un tipo di bracconaggio che non riesci a fermare. In Congo mi è capitato di andare in pattuglia e attorno alla base c’erano molti villaggi di pigmei che facevano la spesa in questo modo: tu andavi là, gli portavi via le trappole, gli facevi il cosiddetto cazziatone, il giorno dopo gli portavi 200 scatole di carne e fagioli, e dieci giorni dopo le scatole erano finite e loro tornavano a farlo. Poi c’è il bracconaggio sportivo o ludico, ovvero il miliardario che decide che vuole il rinoceronte, paga quello che deve pagare e viene accompagnato a realizzare il suo capriccio. A questo si affianca una truffa per ricchi, cioè quella che fanno con i cosiddetti canned lions, ovvero i leoni in scatola, che vengono allevati esclusivamente per essere strumento di produzione di denaro; quando sono piccoli li fanno allattare al turista, quando sono un po’ più grandi li fanno passeggiare al guinzaglio del ricco di turno per le foto e i video da postare su Facebook, e quando diventano adulti il ricco si sente proporre una cosa del tipo: “Vuole cacciare un leone? Tranquillo, vedrà che nei prossimi giorni uno lo troviamo”. Nel frattempo prendono il leone diventato adulto, lo portano sotto un albero che non conosce, e mentre lui si chiede se sarà pericoloso trovarsi lì arriva il white hunter dei film col tracciatore e tutti i suoi aggeggi che fa la commedia del caso, portando con sé il miliardario russo, cinese americano o italiano che imbraccia il fucile, si avvicina a 50 metri e…pum. Tutto questo pagando i 20, 30, 50.000 dollari, a seconda del tipo di animale, della zona geografica e del grado di pericolo.

G: Qualcuno ha legalizzato la pratica.

LV: In alcuni paesi è illegale, mentre altri hanno stabilito delle quote di abbattimento, nonostante la rivolta del resto del mondo. Si giustificano dicendo: “Se io vendo a 150.000 dollari un animale, quei soldi mi servono per tutelare gli altri 500 che ho nella riserva”. E tutti sappiamo che non sarà mai così, e che i dollari finiranno nei meandri del caso. Tornando ai tipi di bracconaggio, ce n’è un terzo, quello che definirei classico: i tre disperati locali poveri e ignoranti che vanno a prendersi il singolo rinoceronte e fanno due o tre giorni nel bush con tutti i rischi connessi. Perché di giorno nella savana tutti i santi aiutano, ma di notte è come trovarsi alle 10 di mattina in piazza Duomo, con la gazzella che scappa dal leopardo, il coyote che insegue la sua preda, il leone che rincorre la sua, e con i tre disperati di cui sopra che al calar delle tenebre diventano tre prede a due zampe. Ho pattugliato in Congo, Namibia e Sudafrica e ti posso garantire che se ti si ferma la macchina nel bush di notte non scendi, perché anche se sei armato è troppo pericoloso. Lì di notte si muovono solo i bracconieri, accollandosi tutti i rischi. Ma torniamo ai nostri tre, che alla fine sono fortunati, riescono a prendere il loro rinoceronte, a evitare i ranger e a portarlo al villaggio, dove lo vendono al riciclatore loro collega – solitamente europeo o cinese – per qualche migliaio di euro: lo stipendio di un anno per loro, cioè niente rispetto a quanto potrebbe rendere. Ma qualcosa va storto, e in ultimo vengono catturati e arrestati, perché checchè se ne dica l’Africa non è il Far West e ogni ranger è di fatto forza di polizia. Senza sparargli, anche se magari potrà esserci qualcuno che lo fa e poi li butta da qualche parte. Ma quando vengono colti sul fatto, questi si fanno 15 anni in una prigione africana e se li fanno proprio tutti senza sconti, con le pene che negli ultimi anni sono aumentate in modo importante, perché in paesi come Sudafrica o Namibia non hanno remore nel condannare il bracconiere cinese o europeo, che i 15 anni se li fanno tutti. E ti assicuro che come vacanza prolungata non è il massimo della vita, se un adagio recita che ci sono due posti in Africa in cui un europeo non deve mai finire: in ospedale o in prigione.

 G: Descrivimi una tua giornata in Namibia.

LV: Sveglia alle 5:00. Si arriva sul campo di addestramento a seconda della situazione che si deve affrontare e si addestrano sia al mattino che al pomeriggio dalle 6 alle 12 unità alla volta, con un’ora di pausa che si consuma sul campo in un ciclo di addestramento che dura da una settimana a 8 giorni, in condizioni climatiche a volte piuttosto impegnative, se consideri che in certe zone dell’Africa si arriva ai 40 gradi. Formiamo queste persone a livello tattico insegnando loro a sparare meglio, medicarsi quando ce n’è bisogno, seguire procedure ben precise nel seguire le tracce che portano al luogo dove magari c’è la carcassa di un rinoceronte (la crime scene del caso), bandellinare la zona, recuperare più indizi possibili per dedurre la provenienza dei bracconieri, che sono gente che usa fucili obsoleti di 100 anni fa, anche della prima guerra mondiale in condizioni pietose, ma che per abbattere un rinoceronte a 50 metri vanno più che bene. Ma sono anche molto astuti, ad esempio nell’usare tre tipi di scarpe con suole diverse per confondere i rangers. Alla fine di questi 8 giorni c’è un esame dove le unità devono dimostrare di avere appreso queste tecniche, che sono abbastanza semplici per due motivi: 1) devono essere tecniche da apprendere rapidamente; 2) non vogliamo insegnare nulla di sofisticato per evitare che un ranger che decida un domani di passare dall’altra parte della barricata e diventare bracconiere sia un po’ troppo avanti a livello tecnico-tattico. Perché questo è un rischio che purtroppo c’è: ci è capitato di avere un accordo per la formazione di ranger in un determinato parco nazionale bloccato da parte del governo, perché in quella zona qualche anno prima c’erano stati segnali di rivolta e il ministero degli interni non voleva fornire conoscenze tattiche militari a una quarantina di persone appartenenti a quell’etnia, che potevano diventare moltiplicatrici di conoscenza. Perché se ti spiego una tattica semplice tu la puoi spiegare a un tuo amico, e da 40 potrete diventare molti di più.

G: Che differenza tecnica c’è tra una game reserve e un parco nazionale?

LV: La game reserve è una riserva privata: facciamo l’ipotesi che io e te abbiamo tanti soldi e decidiamo di comprare un appezzamento di terreno, lo recintiamo e ci costruiamo due o tre lodge privati, che sono sostanzialmente degli alberghi, poi riempiamo questo appezzamento di animali e ne facciamo un business turistico. I parchi nazionali invece sono di proprietà dello stato e ovviamente sono di dimensioni molto più grandi. I bracconieri agiscono in entrambi, ma preferiscono i parchi nazionali per due motivi: i parchi sono grandissimi e le forze a disposizioni per coprirli sono ovviamente minori, e inoltre – ed è bruttissimo dirlo – nei parchi nazionali nel trenta per cento dei casi il bracconiere è lo stesso ranger, perché ha retribuzioni basse da parte dello stato e il rischio di essere arrestato è relativo, dato che è lui a gestire la sorveglianza. In questo senso in Congo mi è capitato di essere in una situazione talmente rischiosa che le pattuglie non erano mai formate dagli stessi 5, ma da unità estratte ogni volta a sorteggio su 160 persone, in modo da non lasciargli tempo sufficiente per accordarsi tra di loro. E quando lavori con un’arma in mano e non sai chi hai davanti o dietro non è propriamente il massimo della vita. Per ovviare a tutto ciò, da molti anni le game reserve hanno adottato una tecnica furba: assumono il ranger ma assumono anche la moglie per fare le pulizie, il figlio per fare il cameriere, gli danno vitto, alloggio e assicurazione sanitaria, e a questo punto il ranger fa due conti: in famiglia abbiamo tre stipendi e una posizione, perché devo rischiare col bracconaggio?

G: Non è difficile immaginare che sorgano altri problemi.

LV: Altro che. Ad esempio, nella zona nord orientale del Congo ci sono due grandi parchi nazionali, Virunga e Garamba, che sono importanti perché lì ci sono i gorilla, che vengono braccati non solo per la pelliccia ma anche per testa, mani e zampe che sono utilizzati come posacenere, e perché dicono siano molto buoni da mangiare. Ma il problema più grande – che pochi conoscono – è che sotto questi due parchi nazionali ci sono grossi depositi di coltan, ovvero il ricercatissimo columbo-tantalite, detto anche oro blu, una pietra minerale blu piuttosto levigata. E qui siamo tutti colpevoli, perché questo è il minerale che viene utilizzato per fabbricare i touch screen dei nostri telefoni, tablet eccetera. Quindi questi parchi si trovano sopra un deposito gigantesco di coltan, con continui scontri a fuoco tra i ranger e le milizie Mai-Mai, da non confondere con i Mau-Mau. Lì succede anche dell’altro. Una volta mentre mi trovo a Garamba nella centrale operativa notano attraverso il monitoraggio di un collare che un elefante è fermo da più di un’ora nei pressi di un villaggio. Fatto strano, dato che si tratta di un animale che cammina molto e può arrivare a fare fino a 80 km. al giorno. Quindi mandano sul luogo una pattuglia di 10 persone, e viene fuori che l’elefante è stato abbattuto e il collare utilizzato come trappola dai bracconieri. C’è uno scontro a fuoco con tre morti: la pattuglia arretra e chiama in supporto un elicottero, che viene a sua volta abbattuto. Questo in una realtà che vede sparatorie praticamente ogni giorno. Tieni presente che in Africa muoiono orientativamente 500 ranger ogni anno, di cui la metà in scontri a fuoco coi bracconieri e l’altra metà in incidenti di vario tipo: il morso di un serpente, la jeep che si ribalta, la carica di un bufalo. Proprio di recente mi è capitato di essere caricato da un rinoceronte mentre mi trovavo sul cassone di un pick up insieme a tre nostri ragazzi: avevamo fatto una curva un po’ lenta e dall’altra parte c’era un giovane rinoceronte nero che si è spaventato e ci ha caricato. Noi ci siamo messi a urlare, lui si è rispaventato e ci ha ricaricato: fortunatamente il danno l’ha subito la portiera e non noi. A un nostro amico molto esperto è successo invece di trovarsi faccia a faccia con un bufalo, il Syncerus Caffer africano che spesso annienta il leone e che è un animale pericolosissimo perché totalmente imprevedibile. Il nostro amico ha fatto appena in tempo a brandire a mo’ di protezione il fucile, che il bufalo ha disintegrato con una testata. E il nostro è stato davvero fortunato, perché indietreggiando è caduto in un fosso fatto praticamente su misura, che ha fermato sul terreno le corna del bufalo che continuava a caricare.

G: Spesso chi svolge un’attività come la vostra è visto come un guerrafondaio megalomane. Cosa rispondi?

LV: O come un contractor. Non ti nascondo quello che penso, e cioè che per intraprendere questa strada una velata aggressività la devi avere, e devi mettere in conto che facendo questa vita un giorno ti potrebbe capitare di dover sparare a qualcuno o di essere fatto bersaglio di colpi di arma da fuoco. Poi preghiamo che questo non succeda mai, perché non è bello uccidere né essere uccisi, o anche soltanto trovarti a sparare addosso a qualcuno. E qui deve scattare un’analisi introspettiva, dove ti devi chiedere seriamente se davvero sei convinto di camminare su questa via. Quando mi si presenta qualcuno che mi dice: “Io non ho problemi a sparare a qualcuno, mettetemi alla prova” lo scarto subito, perché innanzitutto non ha capito una cosa fondamentale, cioè che non sei qui per salvare il pianeta ma per tutelarlo. E questo anche alla luce del fatto che un nostro amico in una riserva della Tanzania ha sostenuto 27 scontri a fuoco dal 2012 a oggi, il che significa sparare a qualcuno ogni 2-3 mesi, e quando ti sparano e tu rispondi al fuoco non sai dove finisce il proiettile. A livello personale, quando ho incominciato a costeggiare questo ambiente mi sono chiesto: “Sono disposto sul serio a mettermi in gioco in toto in una nuova vita, ora che non sono più un ragazzino?”. Poi in Congo nella mia prima operazione mi sono ritrovato sulle tracce di bracconieri in una situazione pericolosa con il mio primo istruttore. Ero freddo, operativo e pronto a sparare, cosa che poi non è successa. Alla fine della giornata il mio istruttore mi ha chiesto: “Come ti sei sentito in quei momenti?”. “Assolutamente concentrato”, gli ho detto. “E’ la risposta che volevo sentire”, mi ha risposto lui. E quella è stata anche la risposta alla mia domanda iniziale.

G: C’è il contraccolpo, ogni volta che rientri in Italia?

LV: No, anche perché ho il progetto di andare a vivere lì. Qui ho il mio lavoro che si svolge in un ambiente simile, dato che mi occupo di sicurezza. Ma è chiaro che l’Africa mi manca sempre più, perché se prima era un viaggio all’anno adesso sono cinque o sei. E ogni volta che arrivo là trovo degli amici che ti aspettano, ed è una festa con aspetti ludici molto divertenti. L’ultima volta che siamo scesi dovevamo fare un corso avanzato con bersagli fatti in un certo modo, e nell’ilarità generale i ranger locali ci hanno fatto trovare queste sagome che avevano la mia faccia e quella del nostro capo.

G: Come vedi oggi la tua vita precedente?

LV: Non rinnego nulla. Ho fatto un percorso che mi ha portato qui: non mi interessa più bere il mojito, non mi interessa avere la bella macchina o l’orologio di marca. Magari mi interessava una volta, con tutta la superficialità del caso. Una cosa che dico a tutti può sembrare trita e ritrita, ma quando sono in Africa a fare quello che faccio io mi sento vero. Pochi valori molto consolidati, un ambiente severo ma semplice: passatemi il termine, ma io mi sento uomo. Lo dicevo a una persona che abbiamo formato di recente: ma come, siamo in un posto dove non c’è nulla, in mezzo ad animali feroci, viaggiamo sul pickup, alla sera mangiamo la carne alla brace sotto questi cieli stellati insieme a gente che arriva da un altro mondo…che vita incredibile. Sei lì e ti accorgi che c’è qualcosa dietro la siepe. Quando mi chiedono perché mi piace così tanto quello che faccio rispondo sempre: “Sto in mezzo alla natura, difendo gli animali e sparo ai cattivi. Conosci una vita migliore?”.

Riferimenti: Facebook PPA – Poaching Prevention Academy, Twitter @poachingpreventionacademy, sito web www.poachingprevention.tk

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