Lemmy Kilmister, il pugno dei Motorhead

28 Dicembre 2016 di Glezos

In vista del primo anniversario della scomparsa di Lemmy Kilmister, ho riletto il pezzo che un anno fa avevo scritto di getto per un paio di siti musicali a qualche minuto dall’annuncio della sua morte. Volevo aggiungerci qualcosa, magari i due incontri che avevo avuto con lui (nel 1978 e 1983) o forse due righe sull’ironia del destino rappresentata dalla vicinanza delle sue date di nascita e morte (24 e 28 dicembre). Poi rileggendo la nuova versione aggiornata – come al solito tradotta alla fricchettona – della sua autobiografia (‘Lemmy – La sottile linea bianca’, Baldini & Castoldi 2016) mi sono soffermato sulla prefazione di Lars Ulrich, nella quale il drummer dei Metallica racconta di come avesse voluto aggiungere qualcosa a quanto aveva detto in occasione del servizio funebre del leader dei Motorhead. Le parole di Ulrich esprimono un disagio nel quale mi rifletto in pieno, quindi Lars mi perdonerà se a mia volta le cito di seguito, nel reintrodurvi a quello che avevo postato 12 mesi orsono: “Rileggendo le parole che scrissi, continuo a credere che quelle parole siano l’espressione più alta del mio rispetto, dell’ammirazione e dell’affetto che provavo per Lemmy. E allora ho chiesto all’editor (…) se potessero stampare proprio quelle, di parole, usandole come prefazione, anziché provare a ricrearle (…) E così, eccole a voi”.

“Siete venuti per niente, la band è ferma in autostrada a Bologna”. Ci guardiamo attorno e sul palco non c’è praticamente nulla. La montagna delle casse del PA ai lati del palco lo fa sembrare ancora più vuoto: niente batteria, niente amplificatori, microfoni, niente di niente. “Occazzo, quindi?”. “Quindi niente concerto, mi sa”.

È la sera del 25 marzo 1980. Arrivati al Palalido a cancelli ancora chiusi scivoliamo dentro grazie a un amico del servizio d’ordine: i Motorhead sono nel pieno del loro Bomber Tour e vogliamo farci un’idea su come siano davvero a tu per tu, noi che Lemmy lo conosciamo principalmente per la sua amicizia con i Damned e con altri punk della prima ora. Tutto visto ovviamente su NME, Melody Maker e altri giornali musicali inglesi, dato che ‘Overkill’, ‘White Line Fever’, ‘No Class’: la cartuccera sui fianchi, le croci di ferro e il resto della paraphernalia da noi non si sono mai visti, men che meno su ‘Ciao 2001’, perché checchè se ne dica adesso nel 1980 Lemmy & Co. qui quasi nessuno sa chi siano.

La gente comincia ad arrivare. Il Palalido è ancora deserto, non si annuncia una serata da sold out ma nella primavera 1980 di pubblico ce n’è sempre, se c’è una band inglese. All’improvviso sul palco inizia il viavai di roadie che apparecchiano in fretta e furia batteria, ampli, aste e microfoni in un turbinìo di metalli che sbattono tra di loro. “Arrivano. No, non arrivano”. I roadie continuano a testa bassa, i quarti d’ora passano in serie. Niente di niente. Il pubblico è più del previsto. I mugugni diventano fischi e poi urla. Siamo all’imbocco degli spogliatoi, girano voci poco simpatiche. “Hanno fermato la band al confine svizzero, è successo un casino, li hanno portati in questura a Chiasso”. Scusa, ma chi te l’ha detto? Mah.

I finti addetti del servizio d’ordine si aggirano incazzati, di giornalisti non c’è nemmeno l’ombra: i Motorhead li conoscono punk e metallari ideosi, alla stampa non interessano proprio. “Ce ne andiamo?”. Finisco la frase e sul palco sale un tizio in un ruggito di insulti, sputi, lattine vuote e cartacce: “Ragazzi, calma che il concerto si fa regolarmente, c’è stato un problema in autostrada, un po’ di pazienza e arrivano”. Il ruggito sale, la gente non ci crede. Ci ripetiamo la frase-manifesto della nostra vita presente e futura: “Stiamo qui, vediamo cosa succede”.

Succede che nel frattempo i Motorhead sono arrivati davvero. Cos’è accaduto in autostrada non si sa, la scelta va dal guasto a un camion a problemi con la polizia. La memoria allunga i tempi, e del clamoroso ritardo (due ore?) non importa nulla a nessuno. Tranne che a Ian Kilmister, che al suo arrivo al Palalido manda in scena uno delle migliaia di episodi di Lemmy-folklore che già sono molto leggenda e poco metropolitana. La vulgata narra quanto segue: Lemmy arriva negli spogliatoi, qualcuno (il promoter?) gli va incontro a braccia aperte ma prima di riuscire ad aprire bocca viene tramortito da un diretto destro in piena faccia, per quello che diventerà noto come il ‘Lemmy swing’ – quello dato con un anello su ogni dito. Poi il leader dei Motorhead tira dritto e sale sul palco.

Cos’erano stati i Motorhead al Palalido siamo in pochi a ricordarcelo. Le luci basse a illuminare solo le gambe, il microfono alto all’ingiù, Lemmy col vento in faccia come su una moto ad andatura cruiser, l’intro di ‘Overkill’, la cartuccera argentata sui fianchi, il basso Rickenbastard a spaccarti il petto, la musica e il volume che dicevano per loro: “Non siamo un gruppo di heavy metal, siamo un trio di fast rock”. Fin qui non ho incontrato nessuno che li abbia visti quella sera nonostante al Palalido fossimo in tanti, così come siamo in pochi in Italia ad avere visto la band all’epoca del trio Lemmy/Philty/Fast Eddie, i veri Motorhead. È casuale, lo so.

Meno casuali sono l’impatto e l’importanza che i Motorhead hanno avuto sotto il profilo dell’evoluzione stilistica musicale da metà anni Settanta in poi: è giustamente opinione condivisa da molti osservatori con voce in capitolo che lo sviluppo di generi diversi (dal primissimo punk al thrash/post-metal) siano stati largamente influenzati dall’approccio musicale di Lemmy, e sottolineo musicale. Si sono spesso enfatizzati lifestyle, look e ascendente su due generazioni di rocker che hanno spesso colpevolmente messo in secondo piano la cosa più importante: la musica. Dal suo stile come bassista all’impronta vocale fino alla scrittura di brani diversissimi tra loro – dai Motorhead alle ballad di Ozzy – la sua influenza è lì da sentire e anche i critici più smaliziati non potranno non riconoscergliela.

Perché quello che rimane di Ian Kilmister va decisamente oltre la t-shirt col logo della band, che come quella dei Ramones mette d’accordo tutti. Soprattutto quelli che i Motorhead non sanno cosa siano stati.

Oggi i pensieri si accavallano: la malattia che alla fine unisce i destini, il dire per l’ennesima volta che il suo male si vedeva nei video amatoriali in rete, e altro che ti imbarazzi a scrivere. Nella vita, nelle passioni e nella musica sono cresciuto nella sua epoca, e oggi so solo che sono stato fortunato. Jerry Lee Lewis – uno degli idoli di Ian Kilmister – diceva “Pensate che mondo sarebbe senza Jerry Lee”, e fino a ieri notte ogni volta che sentivo queste parole pensavo sempre a Lemmy.

L’ho incontrato due volte, e il ricordo lo tengo per me. Come tengo per me quello che sento al pensiero che Lemmy è morto nello stesso giorno in cui è morto mio padre. Se è vero che muore giovane solo chi è amato dagli Dei, sarebbe stato meglio che lassù qualcuno ti detestasse ancora per un po’.

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