Bestie da vittoria, Di Luca e la cura

28 Settembre 2016 di Stefano Olivari

I libri sul doping hanno a volte un’impostazione accusatoria, basandosi sulle veline degli inquirenti, e altre assolutoria, tipicamente nel caso delle autobiografie. Bestie da vittoria, scritto da Danilo Di Luca con Alessandra Carati (editore Piemme), è una interessantissima eccezione, perché nella stessa persona convivono accusa e difesa come del resto è evidente fin dal sottotitolo: ‘Nel ciclismo tutti sanno la verità. Ma la verità è inaccettabile’. Di Luca, radiato nel 2013 dopo una carriera notevole anche se inferiore al potenziale, parla senza problemi della sua vita da dopato entrando anche nel dettaglio quotidiano della cosiddetta ‘cura’ e delle difficoltà pratiche per gestirla senza perdere la testa fra i mille prodotti e la loro emivita, fondamentale nel mettere a punto le strategie per sfuggire all’antidoping e ai suoi incaricati, sicuri (con ragione) di trovarsi sempre di fronte a furbi.

Di Luca afferma di avere sempre avuto la piena consapevolezza, pur non essendo un chimico, di andare oltre le regole ma che questo spingersi oltre sia obbligatorio anche soltanto per sopravvivere all’interno del gruppo: non si dice per vincere, obbiettivo che necessita di cure ancora più mirate e di attento studio dei picchi di forma, ma proprio per strappare un contratto per l’anno successivo in una squadra decente. Secondo il campione abruzzese è assurdo ‘fare i nomi’, visto che in gruppo, anche nei tempi moderni (non solo quindi nei vituperati anni Novanta), letteralmente tutti sono ‘curati’ e quindi nessuno reggerebbe indagini mirate e pressanti.

La parte davvero bella del libro è quando Di Luca spiega la psicologia del ciclista, come lo farebbe un ciclista e non uno psicologo dello sport. Il ciclista è secondo Di Luca strutturalmente un drogato, questo sport pericoloso e disumano lo porta naturalmente ad andare oltre limite perdendo la percezione del rischio: chi non ha paura di ammazzarsi in discesa dietro una curva cieca non ha problemi nel prendersi gioco degli incaricati dell’antidoping con mille trucchi, ben spiegati, che alla milleunesima volta però non funzionano. A questo punto la reazione del gruppo non è di condanna etica, tranne in qualche caso di particolare ipocrisia, né tanto meno di assoluzione, ma di silenziosa soddisfazione perché è stato ‘beccato’ un avversario pericoloso e quindi ci sono più possibilità di vittorie e contratti. Per questo la versione di Di Luca sul caso Pantani è molto credibile: Pantani era il più forte di tutti e si ‘curava’ come tutti. Almeno metà gruppo è stata felice del suo dramma, anche se lui aveva trascinato verso l’alto le retribuzioni di compagni e avversari. Non è esattamente il ciclismo raccontato dai giornalisti di settore o dai letterati in gita premio, pieno di senso dell’onore e di imprese ‘adesso’ pulite, non come quelle dello sporco passato.

Nemmeno l’appassionato di ciclismo ha probabilmente mai letto parole tanto crude sul modo in cui vengono messe insieme le squadre e reperiti gli sponsor: la fede alla parola data non esiste, così come la gratitudine (e Di Luca racconta anche episodi che lo mettono in cattiva luce), tutti cercano di massimizzare gli introiti nei pochi anni buoni senza stare a fare grandi piani per il futuro perché il futuro può non esserci anche se tutti per conquistare la tua omertà ti illudono di farti rimanere nel giro.

Pagine molto intense quelle legate ai rapporti con Carlo Santuccione, suo medico personale fin da quando era bambino, con Sandro Callari che più volte ha provato a farlo rinascere, con il gregario-amico-coscienza critica Alessandro Spezialetti. Amarissime quelle legate al matrimonio con Valentina, rovinato anche dalle attività imprenditoriali di Di Luca (il solito disastroso negozio di sport), commoventi quelle dedicate al ciclismo: un passione divorante, che fa andare fuori di testa e che certi amatori, anche sotto il profilo del doping, potrebbero spiegare meglio dei professionisti. Alla fine di questa spietata seduta di auto-analisi rimane la curiosità per il Di Luca di oggi. Di certo essere onesti, almeno con se stessi, è un buon punto di partenza.

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